BIOGRAFIE
Da vicino nessuno è normale
di Giulia Carmen Fasolo
«La malattia da cui non guarirò più è ormai in forma stabile, come lo è il mio nome e il mio cognome, i vestiti che porto addosso, le scelte che fanno al posto mio. È come un neo sulla pelle, una macchia indelebile.
Mi dà pochissimi privilegi in realtà, anche se può sembrare il contrario: in fondo grazie a lei io non lavoro, non pago troppe tasse, non ho la responsabilità di una famiglia e di figli, non devo pensare a cucinare né a lavare i miei vestiti.
E tutti mi dicono: «beata te che non hai pensieri! Sei quella che se la passa meglio!».
E quando dicono così divento ancora più triste. Loro se vogliono fumano due pacchetti di sigarette al giorno e vanno a comprarseli. Vanno al bar quando vogliono senza chiedere il permesso a nessuno, né devono giustificarsi se ritardano dieci minuti.
Io posso fumare perché ogni mattina mi danno un pacchetto di sigarette e devo farmelo bastare. Mi danno cinque euro di paghetta a settimana e qualche volta mia sorella Carmen mi dà qualche euro per il caffè. Io le voglio così bene che spesso rinuncio ai miei cinque euro per regalarle una ricarica sul telefonino. Almeno così mi sento uguale a lei. Lei prima mi rimproverava, ora l’accetta perché ha capito. E mi perdona sempre anche lei.
Io devo chiedere il permesso di mangiare qualcosa in più, gli altri si abbuffano tutte le volte che vogliono. Gli altri vanno in piazza a fare un giro, io invece no. Gli altri hanno amici ai quali scrivere, o hanno il telefonino da gestire in autonomia, io invece no.
Oggi le cose sembrano cambiate. Frequento una Comunità ad Oliveri, dove mi trattano bene e soprattutto come un essere umano. Ma tante cose le sento ancora oggi. Mangiamo spesso la pizza, gli operatori organizzano spesso serate per noi, feste e manifestazioni. Ma nulla in quello che si fa è davvero normale. A volte vedo i miei compagni abbuffarsi in pizzeria, perché sanno di dover – come me – cogliere l’attimo. Ché poi tutto questo prima o poi finirà, perché non esiste una “nuova psichiatria”: non è altro che il camuffamento di quella vecchia, solo nel tentativo disperato da parte dei potenti di redimere i propri studi ed espiare le proprie colpe. Perché oggi noi malati siamo soprattutto quello che ieri hanno fatto di noi.
In fondo, a ciascuno fa bene mentire.
Ma tutti lo sappiamo: da vicino nessuno è normale».
Prefazione
La concezione della malattia mentale in realtà non è mai mutata completamente, neppure dopo la legge Basaglia del 1978. La storia di Giusy Fasolo ce lo insegna, dandoci le colpe che abbiamo, privandoci dei paraventi dietro i quali noi del settore della psichiatria e della psicologia spesso ancora oggi ci nascondiamo. Tracciata, così, la nostra prima colpa.
Il disavanzo tra malattia e umanità, relativamente a due fronti che vedono contrapposti chi ritiene di avere il compito di “sostenere clinicamente la patologia psichiatrica” e chi pensa di dover difendere la dignità di colui che viene etichettato come disagiato, in realtà fa ancora fatica a trovare compensazione, se non una unione concettuale. Vi sono taluni operatori che guardano al soggetto pensando prima alla nomenclatura del suo disagio psichico e poi, eventualmente e se resta tempo, all’umanità calpestata che smette di assumere le forme di dignità, diritto e voce. E qui è necessario assumersi una seconda colpa.
Il malato mentale è spesso considerato – prima ancora di essere una persona – solo un oggetto che procura fastidio, un successo o un non successo terapeutico, una cavia sulla quale sperimentare da un punto di vista clinico e farmacologico, con poca progressione scientifica. Troppo spesso ancora ci si scorda che i colli inclinati, gli occhi fissi e appannati, i dondolii, l’interruzione della parola e apparentemente delle relazioni con l’esterno, sono in realtà molto spesso frutto delle nostre mani e delle nostre firme su fogli clinici, su cartelle, su dichiarazioni di malattia, su farmaci prescritti, su sentenze facilmente rintracciabili in una ortodossia clinica che va smantellata.
Il collo inclinato di Giusy Fasolo contro “lo sporco del finestrino”, il suo arresto e la sua infinita notte presso la Caserma dei Carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto, l’etichetta di “bandito in gonnella” sviluppata dai quotidiani locali (Gazzetta del Sud e Giornale di Sicilia), la sua breve permanenza nelle carceri messinesi di Gazzi, il suo lungo (2 anni e 9 mesi) periodo in O.P.G. “Ghisiola” a Castiglione delle Stiviere, la sua odissea familiare e individuale, la solitudine consequenziale, non sono stati sempre e soltanto prodotti della sua patologia psichiatrica: spesso sono stati conseguenze devastanti di un servizio socio-sanitario presso il quale, in realtà, la bandiera della nuova psichiatria tarda ad arrivare. Sono stati prodotti di una somministrazione farmacologica spesso sconsiderata, di una valutazione non ponderata, di una pressione di potere clinico discutibile, di un peregrinare terapeutico che ha riproposto negli anni lo stesso peregrinare subito da Giusy durante l’infanzia quando, per essere allontanata dalle violenze del padre e per darle un blando aiuto comportamentale, veniva alloggiata negli Istituti.
Rappresentando un insuccesso terapeutico, il suo caso veniva “posato”, lasciando ad altri un compito impossibile: guarirla. Così, Giusy Fasolo negli anni non è stata seguita, presso i servizi socio-sanitari della sua città, da un solo professionista, ma da diversi. Gli esiti e i risultati ciascuno di noi li conosce bene, li rivede ogni giorno in lei. Chi ha colpa di tutto questo dovrebbe chiedere scusa alla famiglia Fasolo e Panté, poiché i tempi sono maturi da molti anni ormai.
Ho conosciuto Giusy Fasolo e con forza posso affermare che danni evidenti sono stati fatti a carico della sua vita e di quella dei suoi familiari nel corso degli anni. La sua storia dovrebbe servirci da monito, divenendo un richiamo di coscienza per chi deve vedere anche al di là del ruolo che ricopre. Non abbiamo una poltrona e una scrivania per devastare la vita di qualcuno o per gestirla secondo parametri che appartengono a comparti stagni, alle nostre personalissime valutazioni, a manuali diagnostici letti e studiati in malo modo.
Il ruolo che ci viene affidato, nel pubblico o nel privato, dovrebbe assumere il dovere del sostegno, della cura, della prevenzione, del rinforzo della salute mentale, dell’accoglienza e dell’ascolto dei tratti di chi abbiamo di fronte.
Quello che viene definito malato mentale è un uomo, è una donna, è un soggetto che pone in essere di fronte a noi – e alle nostre talvolta falsate evidenze – richieste di nuove attenzioni, di regolazioni migliori nella somministrazione farmacologica, di assenza di contenzione, di azioni ergoterapeutiche programmate, etc. Richiede una rivalutazione da parte nostra di concetti e astrazioni, di nomenclature e aggettivi. Ma che sia una rivalutazione vera, e non solo una formula da convegno.
Ciascuno di noi dovrebbe assumere, umanamente e professionalmente, leggendo questo libro, piena coscienza di quello che è accaduto a chi ne ha consapevole lucidità e profonda paura nella determinazione dei propri diritti. Perché ciascuno di noi poteva essere Giusy Fasolo, così come lo possono essere i nostri figli, i nostri fratelli e le persone a noi care. Ciascuno di noi può assumere domani il ruolo di oppresso, non più di oppressore.
Ciascuno di noi dovrebbe comprendere, attraverso i tracciati di una storia reale come quella di Giusy Fasolo, che si è colpevoli di fronte a tutto questo, che l’insuccesso terapeutico non riguarda la malattia mentale e la sua eventuale inguaribilità, ma soprattutto il nostro modo di porci all’altro, di dare (o di non dare) all’altro quel sostegno che non è sostituzione di personalità, come si fa con i pezzi di ricambio delle macchine, ma equilibro personologico, una riabilitazione psichiatrica concreta, congruente e non pressappochista.
Lasciamo che l’altro possa, con il nostro sostegno, divenire dignità, senza che questo comporti ancora una volta da parte nostra la distorsione della sua vita, dando ad essa la forma che più riteniamo consona.
è vera e risulta evidente sempre di più la chiosa finale: da vicino nessuno è da ritenersi normale. E ben racconta, attraverso le parole di Giusy, la sorella. Donna matura e professionalmente attenta all’altro e all’eventuale disagio che è costretto a vivere. Su questo pongo la mia valutazione di eccellenza nei confronti di Giulia Carmen Fasolo, in umanità e professionalità, poiché ne posso comprovare gli esiti visto che la stessa esce dalla mia scuola di formazione. Donna che ha vissuto, fin da piccola, un peregrinare terapeutico per la sorella con scarsi esiti, ad eccezione del periodo attuale che la vede in cura presso la Comunità Terapeutica Assistita Villa Gaya[1] situata nel Comune di Oliveri. Qui, Giusy sembra aver trovato, grazie all’équipe professionale interna alla struttura, quella stabilità terapeutica (e non solo) di cui da sempre aveva bisogno.
Giulia Carmen Fasolo sa bene che oggi, da adulta, la fama professionale, che ha costruito con tanti sacrifici personali e formativi, la pone di fronte ad un necessario impegno: non fare gli errori che tanti altri hanno fatto con Giusy nel corso degli anni, guardare ciascun essere umano negli occhi per leggerne le sue vive esigenze, senza porlo mai in posizioni secondarie, ascoltarlo e contribuire alla sua libertà e forza mentale. Tutto ciò perché l’uomo ha pari dignità, qualsiasi sia la forma che assume la sua mente, affinché per nessuno ci sia – come per Giusy – un punto di non ritorno.Chi opera nel campo della psicologia e della psichiatria, del servizio sociale e dei programmi riabilitativi, chi combatte per la dignità umana, chi sostiene la vera salute mentale non può che offrire consensi a queste pagine e al dolore della famiglia che ha subito tutto ciò che ci viene raccontato. E farne tesoro, per non riproporre lo stesso dolore e gli stessi errori in futuro.
Recensioni
– Cinzia Crinò
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