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“Malerba” di Orazio Carnazzo

Il prezzo originale era: 10,00€.Il prezzo attuale è: 8,00€.

NARRATIVA | Collana “Orme di inchiostro | Romanzo
Pagine: 143
ISBN: 978 88 6300 070 2
Edizione: novembre 2012
Euro: 10,00
Formato: 15×21 cm
Rilegatura: brossura fresata

NARRATIVA | Collana “Orme di inchiostro | Romanzo

Malerba

di Orazio Carnazzo

Prefazione di Rita Borsellino e Introduzione di Nunziante Rosania

Prefazione di Rita Borsellino

Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina. Al suo interno c’è una scritta: “Qui si fabbricano i sogni”. Ma qui è vietato sognare, qui non c’è speranza. Malerba ha il merito di fare entrare il lettore in punta di piedi in questo luogo della sofferenza, così vicino a noi eppure così sconosciuto, e di fargli incontrare le persone. Ma in questo luogo, la prima cosa che colpisce è l’inadeguatezza del compito che dovrebbe svolgere. La dignità della persona è spesso calpestata da istituzioni cieche e incapaci di vedere oltre. Questo è un luogo in cui la diversità è un ostacolo, un fastidio, un peso da cui liberarsi. È un luogo di sofferenza per i tanti soggetti psicolabili che varcano quella soglia; lungi dal trovare strumenti di recupero, si lasciano alle spalle qualsiasi possibilità di riabilitazione e di reinserimento sociale. È luogo di detenzione, sottoposto alle regole che questo status impone. Luogo che molti preferirebbero dimenticare, come se non esistesse, relegandolo lontano da noi e dalla nostra esistenza “normale”. Orazio denuncia con forza, ci ricorda l’esistenza di questa realtà, ci mostra, quasi con brutalità, questo luogo d’inferno dove contano solo i numeri e non le persone. Qui non c’è spazio per la persona, e i tanti Salvo Caputo che lì “vivono” sono per lo Stato soltanto soggetti “socialmente pericolosi”.

Questo è un luogo “non-luogo” che non dovrebbe esistere in un Paese moderno e civile. È un luogo simbolo che, potremmo dire, esprime al meglio le contraddizioni del nostro Paese. Ed è un luogo in cui tanti operatori, in condizioni estreme, prestano da volontari la loro opera per ridare una speranza a quanti l’hanno smarrita. È per questo che noi non possiamo fuggire, non possiamo girare la testa dall’altra parte, ma dobbiamo con forza richiamare quanti hanno responsabilità di governo, strumenti normativi adeguati a cancellare simili realtà. Quanti hanno responsabilità istituzionali non possono e non devono sottrarsi all’obbligo di visitare almeno una volta luoghi come questo, per rendersi conto della gravità e dell’assurdità della loro esistenza. Molti anni fa ne ho fatto esperienza diretta. Con una “Carovana antimafia” e l’ARCI attuammo un progetto e portammo, dopo un percorso educativo, un gruppo di “ospiti” della struttura a incontrare i ragazzi delle scuole. Non ho mai dimenticato come, dopo un comprensibile disagio iniziale, i ragazzi accompagnassero con grande partecipazione i canti e le performance degli “ospiti” e alla fine si mescolassero a loro con la massima naturalezza. Ricordo ancora le delicatissime poesie d’amore, lette prima con voce incerta e scontrosa, e poi con grande passione, da un soggetto che l’immaginario collettivo avrebbe, per la sua storia, definito un mostro. Oggi, per le condizioni attuali, per le normative inadeguate e anche per la carenza di personale, tutto ciò non è possibile. Vite come vuoti a perdere! È per questo che dobbiamo sentire forte il dovere di non rassegnarci, di continuare a sperare per affermare le ragioni del bene co- mune e della dignità della persona. Per chiunque e in qualunque situazione. Sempre.

Introduzione di Nunziante Rosania

Gli ospedali psichiatrici sono “residuati bellici”, bastioni formidabili e terribili di quella guerra – perennemente dichiarata – al “diverso”, all’“alieno”, al “folle”, appunto, che occupa gran parte della storia dell’umanità e ne alimenta le paure diffuse, i fantasmi collettivi, le formidabili crisi identitarie (individuali e collettive). Essi (gli O.P.G.) rimangono fra i più efficaci simboli di quelle angosce, diffuse quanto denegate, che hanno consentito infinite atrocità, indotto lutti, precipitato inevitabilmente il destino di intere civiltà che si sono affacciate e, quindi, inesorabilmente inabissate nei gorghi della storia nel breve volgere di qualche stagione. È l’altro da noi che, con la sua diversità, costantemente, inesorabilmente, irrazionalmente allude alla nostra relatività, alla nostra finitezza, alla nostra caducità, al nostro essere mortali.

Il folle è, nel senso comune, l’“altro” che alberga, con il suo potenziale dissociativo e di annichilimento dell’Io, nell’inconscio di ciascuno di noi. La sua esistenza rinvia costantemente alla possibilità del corrompimento cognitivo, del mortifero decomporsi del livello ontologico e, in ultima analisi, della fine del tempo dell’Uomo, il quale continua a identificare la sua essenza esclusivamente con la sua ragione. Ma follia significa, com’è evidente, anche scompaginamento di regole, possibilità altra, fuoruscita dalla norma e anticipazione del nuovo, proiezione nel futuro, gravidanza di nuove opportunità, di nuove soluzioni al mistero dell’essere, all’enigma della vita.

La follia è spesso talento impossibilitato a esprimersi, misconosciuta ricerca di affinamento degli stili relazionali, originale declinazione emozionale, sconvolgimento del rigido ordito esistenziale tessuto da “sua maestà” la Ragione e dalle sue logiche, da un linguaggio verbale ipertrofico che, nella ordinaria “normalità”, vede i significanti (le tante parole che pronunciamo nella nostra quotidianità) spesso smarrire i loro significati. Nei termini sopra richiamati avviene sovente che l’asserito “nonsense” della follia conduca a un nuovo senso il vivere insieme agli altri. Salvo Caputo, singolare quanto ineffabile protagonista del racconto dal titolo Malerba di Orazio Carnazzo, è portatore di una nuova saggezza, una saggezza empatica, una saggezza che nasce dall’intuizione del valore altrui, dell’altrui mondo, la cui insondabile unicità è sperimentabile solo attraverso asintoti psichici, attraverso una rispettosa prossimità, attraverso un delicato avvicinamento, attraverso quel “sentire insieme” che è la tappa successiva della volontà di ascolto dell’altro.

Salvo è internato in O.P.G. perché il suo essere “novità” sul piano dello stare nel mondo, dell’esistere, è percepito, a livello sociale, come destruente, come mortifero, perché sconosciuto, arcano, misterioso: alieno, appunto.

Tutto questo “merita”, secondo i canoni della comune vulgata, stigma, esclusione, emarginazione, rimozione dal “consesso civile”!

L’abolizione dell’O.P.G. passa attraverso il riconoscimento dell’assurdità di queste paure che percorrono (e sembra davvero senza posa!) il corpo del “collettivo umano” e la necessità di un aprirsi laico alla presenza delle mille diversità che compongono il caleidoscopio del reale, accogliendo queste diversità come nuove opportunità, cui occorre accostarsi per capire e incontrare autenticamente l’alterità. Ciò pur in presenza di un reato (quando questo sia stato davvero commesso e le responsabilità attribuite attraverso un equo processo penale) il quale va punito nei termini e nei modi previsti per ogni cittadino, per ogni persona che, in quanto tale, si connota, fra l’altro, per l’essere titolare della responsabilità degli atti che compie.

La legge (la norma statuita e codificata, democraticamente voluta a sostegno del vivere comune) innerva il patto sociale e pretende, per confermarsi nella sua validità, anche la punizione del responsabile: questa punizione (che non può essere scevra da umanità e che dev’essere, allo stesso tempo, commisurata al danno arrecato alla società e tesa al recupero del reo) riguarda tutti gli individui che compongono la comunità degli uomini a prescindere dalle diversità da cui questi individui sono caratterizzati. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, orridi contenitori di umane esistenze abbandonate alla deriva, tragicamente contrastano, e ormai da gran tempo, con quanto considerato sui concetti di persona, di responsabilità (e, quindi, di imputabilità), di umanizzazione della pena e con ogni plausibile progetto di ulteriore sviluppo civile: chiudiamoli e troviamo il coraggio, e il tempo, di conoscere davvero Salvo Caputo!

Nota al libro di Orazio Labbate

Cosa anima un libro per renderlo tale?

Cosa giustifica la validità di esso rispetto ad altri?

Con assoluta certezza non riscontro una risposta generale e dunque assolutista, eppure nella lettura di quest’opera mi ha pervaso la reale significanza del termine “ libro carnale, terreno, onirico”. Come compendiare, riassumere e ricongiungere questi tre aggettivi qualificativi adattandoli ad un sostantivo quale: libro?

Il profumo di una donna che ha i lembi di pelle profumanti di sesso pregresso ma poi esploso, gli incontri che si dissolvono nelle orbite di residenti di un non-luogo, le scritte che solcano dirompenti le strutture accoglienti i non-sani, il dubbio notturno che anima lo spirito di noi membri di una società che non distingue la sanità dalla genialità, il nascosto piacere di incontri anche brevi, il sordido piacere di terra che ingloba le mani nell’atto di una chiusura di occhi in Sicilia: è questo il ringraziamento che il mio essere porge fortemente alle parole che compongono questo lavoro.

È questo il pacato sentimento di distensione che avverto non definendo il mio essere vivo: reale o sognato?

Si staglia un romanzo, ai miei occhi, che risolve in un sublime connubio la antitetica realtà rurale, manicomiale con il sogno come altro “luogo”.

Ed è per questo validissimo motivo che ancora preferisco riassorbire con freschezza di sesso di scirocco siciliano le immagini che mi si propongono validamente.

La sicilianità nella sua carnalità ma anche onirica prospettiva dove le estati non sono estati e i manicomi sono lontani dall’essere “i manicomi” definiti dall’uomo medio. Questo nuovo infante ha partorito Orazio Carnazzo e dobbiamo essergliene grati quali lettori e , soprattutto, membri di una società che dimentica chi non deve subire dimenticanza: “ il matto e la Sicilia”.

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