ULTERIORA MIRARI / Monografie / Poesia 2012
La giostra della lingua. Il suolo d’algebra
di Marina Pizzi
COPIE ESAURITE
Nota biografica
Marina Pizzi È nata a Roma, dove vive, il 5-5-1955. Ha pubblicato i libri di versi: Il giornale dell’esule (Milano, Crocetti, 1986), Gli angioli patrioti (Milano, Crocetti, 1988), Acquerugiole (Milano, Crocetti, 1990), Darsene il respiro (Milano, Fondazione Corrente, 1993), La devozione di stare (Verona, Anterem, 1994), Le arsure (Faloppio, CO, Lieto Colle, 2004), L’acciuga della sera, I fuochi della tara (Lecce, Luca Pensa, 2006), Dallo stesso altrove (Roma, La camera verde, 2008), L’inchino del predone (Piacenza, Blu di Prussia, 2009), Il solicello del basto (Roma, Fermenti, 2010), Ricette del sottopiatto (Nardò, Besa, 2011). Ha pubblicato inoltre le plaquettes L’impresario reo (Tam Tam 1985), Un cartone per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998), Le giostre del delta (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario”, 2004). Sue poesie sono state tradotte in Persiano, in Inglese e in Tedesco. Numerosi e-book e collaborazioni si possono leggere on line su blog e siti letterari specializzati. Ha vinto tre premi di poesia.Sul web ha curato i seguenti blog di poesia: Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi, Sorprese del pane nero.
Prefazione di Alessandra Pigliaru
Il rimosso riemerso e il disastro
Le parole, scriveva Bachelard ne La poetica dello spazio, sono piccole case, con cantina e soffitta. Mentre il senso comune che consente l’astrazione abita al piano rialzato, la ricerca etimologica sta sotto; il gesto della discesa significa poeticamente avere il coraggio di osservare quella cantina perché è in essa che si scoprono tesori introvabili. Quella cantina ce la figureremmo dunque come un grembo prolifico di parole verticali a costruire la carne e il sangue della poesia, figliolanze accennate ma ardenti che la nuova silloge di Marina Pizzi ci restituisce con desiderio. I centoventi quadri che compongono il prezioso volumetto sono confessioni del ladrocinio all’io. Un io minimale e affatto conciliante, smarcato dal fragore sordo e privato della propria mitomania, che si impone senza prostrazione sulla struttura del reale. In quello sguardo reclinato verso il disastro Pizzi concede al circostante di apparire in tutta la sua rapinosa nevrosi. La semantica dissidente è deflagrante commistione simbolica. La giostra della vita il suolo d’algebra assume in tal modo la distanza del rimosso riemerso e restituito in contrappunto, senza digiuno di speranza.
Con la coda dell’occhio chiede venia
al cipresso bambino al tempo stretto
precoce della madre. Il feretro del salto
limo redento in desco di cannibali.
Da ciotole di ginestre senza seduzione
i fiori in torto di essenze colpe del bello
in fase di pendenza. Spauracchi di grano,
spavento il credo degli ultimi.
Il residuale linguistico serve da spartiacque tra sé e il tempo, un ritmo fuori sincrono entro cui l’immersione appare perigliosa e scollata. Così è lei a scucire e riannodare la tassonomia del quotidiano per ridare il tumulto alla parola che non sopporta più e si fa comunione di promesse disattese. Una parola trafitta e disincantata, sottratta al caos del già detto, diviene motivo di visione consapevole e destinale: Ora la domanda che c’ispeziona | faccia docile la cattura imposta. Non c’è alcuna richiesta tuttavia senza pretesa di assoluto, così Pizzi si sofferma sull’interrogazione inesauribile del sé come inciampo nell’inconscio, balbuzie di cometa. Un passo sghembo che ricorda la lingua dell’impossibile che accade, una lingua che batte forte sul limite della coscienza per contrassegnarne la risorsa e pur tuttavia l’invischiante deiezione se non si corre al riparo. L’io sceglie cade si rialza e ancora rinasce nomina e uccide, nel suo divenire soggetto capace di lenire la frattura insaziabile tra pensare e sentire. Con il panico della solitudine che intanto azzanna e ci rende stranieri al resto del mondo. Un panico circoscritto e spesso canzonato che mostra tutta la sua feroce teatralità.
Quale manciata di luminarie
(gaiezza d’ispezione)
potrà rendere chi non sono?
Braci di equilibrio questo ammanco
di corpo d’anima. La botola canora
delle preghiere quasi in rivolta.
Spintone d’acido il dado del dì.
Neppure disperante questa febbriciattola
turrita di blasfemie da angelo di dirupo.
La Santa degl’Impossibili
cicala lapidata dalla lapide.
Nella ripetuta occorrenza dell’ispezione, la poeta si colloca come colei che non accetta finzioni e che ci rende vedenti della sua stessa materia, telaio di segni e sintomi rincorsi e dipanati dall’ombra del negativo che non si dis-vela. Ci porta invece nel luogo incerto e attraente della transitorietà per farci conoscere la doppia storia di una (in)felicità mai percorsa per intero. Paralisi del reale o disfacimento del razionale? Se l’ordine veste l’assurdo allora il compito della poesia è quello di rivelarne quantomeno il meccanismo per restituircelo dotato di significato inedito. Nella decostruzione raffinata posta in essere nel verso, Pizzi riconosce se stessa includendosi parte di un alto e svettante gioco linguistico.
Equilibrismi della dismisura
l’attesa del brivido con la pietra
al collo. Asilo l’orìgami di condannati
natali postumi. Studiolo in brache questo
sterminio in tavole d’eclissi e serbatoio
l’odio vestale di dio.
Un rifiuto fecondo che puntella l’inaudito e scampa il sacrificio di stare al passo. I versi tratteggiano geometrie eventuali e rispondono al suolo dell’algebra come ad una costellazione familiare scomparsa d’un colpo, come se la mano spuria del fato avesse neutralizzato ogni opportunità di vicinanza; un’orfanità dilagante che sembra essere l’unica strada entro cui dichiarare la propria libertà esigendo, con essa, uno speciale metronomo interiore. Nata anzitempo vissuta anzitempo morta anzitempo, la sorte ingombrante di camminare lungo l’orlo del mondo non interrompe la precisa conta di chi siede Da anni dalla parte del torto | senza fracasso nel suono di versi | salpati senza battesimo. Ed è proprio all’altezza di quel torto che si scommette sull’equilibrio prossimo, che la paura dell’abbandono è dissipata e la caduta in terra madida comporta un necessario giacere per intuire – almeno a tratti – di stare al mondo con gli occhi spalancati sul futuro; che gli altri esistono – certamente – ma che se di prescrizioni esiziali si deve vivere, almeno siano quelle imposte dalla nostra stessa severità, senza ingerenze. Eppure l’elenco non è completo, la poesia stessa è un’apologia del frammento a venire. La voce del fuori interrompe prontamente ma è troppo flebile per essere distinta, se ne sente unicamente il contraccolpo ché l’Altro è lo Stesso. Una spietatezza che non perdona l’ingiustizia di cui siamo fatti e che implacabile sottende al lavorio di una vendetta ormai scaduta.
Con l’ombra a mulinello a far da segnaletica
per il vuoto da commettere. Non hai capito
se la foglia ingiallita del tizio che gironzola
sei tu stesso o la lite del mondo
l’indifferenza comunque così celata
da chi ci riprova o prova o solo non sa.
Pizzi non indulge sul catalogo poetico ma, fedele al rogo del martirio, è in relazione al crocicchio del non- sapere. Non c’è tuttavia scacco che non sia ragionato ed è proprio nell’interstizio del non compiuto che la poeta appare alleggerita dei sensi e dei pegni scorti al bavero dell’alba. Così non c’è pietà a cui appellarsi o dualità virtuosa che non preveda fin dall’origine una risonanza mutilata. Ed è esattamente in quell’asola del tempo e dello spazio che la poesia di Marina Pizzi costruisce la sua dimora, ogni parola come una piccola casa provvista di scomodi ma urgenti tesori.