Domina di Maria Morganti Privitera

10,00

POESIA | Collana “Orme di poeti”
Pagine: 64
ISBN: 978 88 6300 209 6
Edizione: novembre 2017
Euro: 10,00
Formato: 15×21 cm
Rilegatura: brossura fresata a folio

POESIA | Collana “Orme di poeti”

DOMINA

di Maria Morganti Privitera


Prefazione a cura del Prof. Giuseppe Rando

Maria Morganti Privitera si segnala d’abord tra i poeti siciliani della sua generazione per il linguaggio schietto, disinvolto, diretto, immune da sdolcinature e belletti, che trova il suo naturale canale espressivo nel canto lungo, non sillabato né frammentario, bensì modulato sui tempi lenti, discorsivi dell’endecasillabo sonoro. La stessa non soggiace ad alcuna forma di mitizzazione campanilistica del passato, ma si direbbe guardi al presente e al futuro, in una prospettiva europea, se non mondiale, scavalcando di slancio le angustie della mentalità provinciale.
Certo, quel che soprattutto connota l’attività poetica della Morganti Privitera è la decisa opzione per i temi forti della poesia sociale, impegnata, politica, di denuncia e/o di protesta che dir si voglia, pur riservandosi la poetessa momenti di femminile abbandono agli incanti della natura e ai sentimenti autentici di donna, moglie, madre, nonna, maestra. Quanto dire che Maria Morganti Privitera ha ulteriormente irrobustito, in Sicilia, proprio nella provincia messinese (sulla scia di Maria Costa), la poesia sociale al femminile. E se Messina e la Sicilia vivacchiano nella melassa perbenistica, nel parassitismo sociale e nel servilismo politico o nell’indifferenza, la poetessa messinese di Barcellona Pozzo di Gotto tiene alta la bandiera dell’impegno, della giustizia, della dignità umana e – perché no – della parità di genere.
Ciò detto, vediamo di gettare uno sguardo sul terzo libro della Morganti Privitera, Domina. Un poemetto e altre poesie, di uscita imminente, che fa seguito ad Arabeschi di luce, raccolta di poesie in italiano, pubblicata da Grafo Editor, a Messina, nel 2010, e alla silloge poetica in dialetto siciliano U risvigghiu du carrumattu, apparso nel 2014, presso Giambra, a Terme Vigliatore.
La nuova silloge, centrata, come nessun’altra mai, attorno ai fasti (e ai nefasti) della donna, si apre con il poemetto Domina, assolutamente programmatico e tale da costituire, con i due componimenti seguenti (Donnacoraggio e Il carapace), una vera e propria trilogia della femminilità eroica, interpretata e rivissuta da una donna.
Nel primo, l’occhio storicistico, “partigiano” della poetessa fissa in momenti cruciali alcune figure esemplari di donne che hanno contribuito allo sviluppo e al progresso dell’umanità, secondando una sorta di epifania muliebre, accesa dal giusto orgoglio di genere e condita da buone dosi di ironia e di sarcasmo. Da Eva, «sinuosa e bella / con biondo, vellutato e lungo crine»/, alla donna del primo Homo sapiens, il quale codifica subito i ruoli femminili («figli percosse, un gatto per amico»), a Saffo, alle compagne di condottieri greci e latini, a Maria, a Ipazia, a Teodora, a Giovanna d’Arco, a Caterina da Siena, a Maria Stuarda, ad Anna Bolena, a Isabella di Spagna, alle poetesse italiane del Cinquecento, a Caterina di Russia, a Emily Dickinson, all’«obliata» Giannina Milli che «si spese tanto per l’Italia Unita», a Evita Peròn, a Goliarda Sapienza, all’«apripista» Maria Giudice, «la prima donna sindacalista», a Franca Viola che «sull’altare rispose: “no, non voglio”», a Madre Teresa e alle donne, scienziate e poetesse, del Novecento («Ada Negri, Maria Montessori / Maria Curie, la Levi Montalcini / la Spaziani e la Dacia Maraini»), nonché a tutte le donne “liberate” dei nostri difficili tempi.
La passerella, che si era aperta all’insegna dell’amaro sarcasmo sui ruoli codificati ab origine, si conclude con una furbesca domanda retorica attraversata da una nota d’ironia femminile: è mai possibile che il Padreterno, «Lui grande, giusto, misericordioso / per una mela del Giardino Bello / avesse fatto tutto quel macello?».
Nell’inno seguente (Donnacoraggio), scandito in cinque strofe composte da versi di vario numero di endecasillabi sciolti (ma a rima baciata nei due versi finali di ogni strofa), scorrono rapidamente (senza indugi parenetici, senza alcuna concessione al patetico) figure emblematiche di «donnecoraggio» alle prese con i mali di oggi (i nefasti!): quella che ha subito la mastectomia, rifiutando di rifarsi il seno per colpire meglio «i mali avvenire»; quella che riceve, a mezzanotte, l’atroce notizia della morte del figlio sulla strada; quella che, «avvolta in un maglione decennale», riesce a dar da mangiare «alle tre bocche / che aspettan […]»; quella che, spossata dai lavori quotidiani della casalinga, riesce a fare la torta, di sera, per tutti; quella che, rimasta vedova, in tarda età, «quando l’argento la fa da padrone», scopre l’amara solitudine. Ma nell’ultima quartina, questa donna, tuttavia «altera, forte, consolata» – è l’auspicio della poetessa – riesce a farcela, «sorretta dalla fede in Dio» / e «scaldata agli occhi azzurri dei bambini».
Di grande originalità e di forte presa emotiva è intessuto il terzo componimento della “trilogia”, Il carapace, un inno di sei strofe di cinque versi ciascuna, dove la “poesia femminile” – ammesso che la poesia abbia un sesso – trova una delle sue più convincenti punte espressive. Lo stile conversevole, il lessico usuale (preferibilmente concreto), le metafore limpide del mondo popolare («Mi sono ritrovata / fuori dal nido») illustrano una sorta di diorama della vita dell’io poetante, che diventa emblema della vita di tutte le donne, costrette, fin dalla nascita, a costruirsi una corazza viepiù spessa (il carapace), per difendersi dai nemici esterni e interni.
Nella intensa lirica Come falene, l’endecasillabo si fa morbido e sinuoso per accogliere l’elegia di una perduta sera nei campi, prima della scomparsa delle lucciole. «Sera lontana, magica, un ricordo», in cui «il profumo di zagara invadente / si spandeva nell’aria senza vento». L’io poetante recupera nella memoria un’improvvisa visione: «S’accesero le luci all’improvviso / e c’erano le lucciole impazzite / che andavano a morire sui lampioni». La visione fugace delle «lucciole impazzite» richiama, per analogia, la brevità di un amore d’antan: «Solo un fremito d’ala di farfalla, / li sfiorò. Si fidarono del Tempo / appesi ad aquiloni di cristallo / ma il Tempo fu tiranno e li tradì». Vera, alta poesia.
S’alterna al settenario, l’endecasillabo, per farsi lamento d’amore e di morte in Ipazia d’Alessandria, dove la Morganti Privitera rievoca il martirio atroce a cui la vergine Ipazia, «obliata / a bella posta dai libri di storia», fu condannata dal vescovo Cirillo, proprio perché non conforme al modello imperante della casalinga ubbidiente e ignorante. La fanciulla «bella, astronoma, scienziata» divenne, tuttavia, emblema immortale del genio femminile e parimenti della ingiustizia patita dalle donne, per mano degli uomini, nel corso dei secoli. La poetessa di oggi, portavoce di tutte le donne, si identifica, dolente, con lei, nella secca chiusa del componimento: «perché ognuna di noi, per una volta / nella sua vita ha somigliato a Ipazia!».
Ma è del tutto immune, la Morganti Privitera, da ogni forma di estremismo femminista (o, peggio, femaleist): parità non vuol dire, per lei, annullamento delle differenze specifiche o negazione della complementarità dei sessi, bensì riconoscimento anche delle virtù maschili e degli uomini che le interpretano: Don Pino Puglisi, «ucciso [dalla mafia] perché aveva dirottato / verso una vita vera e dignitosa / schiere di giovani», è per tutti «una vivida face, tanto intensa / da sovrastare Vespero e Orione» (Don Pino Puglisi). Così come Mario, «morto in un incidente in Piemonte» e donatore dei suoi organi, è già un santo laico: «hai ridato la vita a chi, morente, / sperava un altro spicchio di esistenza» (A Mario).
Endecasillabi e settenari s’intrecciano ancora in un componimento gnomico e pedagogico (Perché), intessuto intorno alle domande cruciali della nipote alla nonna-poetessa: «“Nonna, cos’è la vita? / Cos’è l’amore? E poi “cos’è la morte?”».
Lo stesso, forte legame pedagogico traspare nella breve lirica Ieri, che suona come ulteriore attestato d’affetto della professoressa (in pensione) per gli studenti: «io vi davo il saper, la conoscenza, / ma voi mi arricchivate giornalmente / con l’entusiasmo della giovinezza». Non manca, nella chiusa, lo spunto sornione dell’intellettuale, per cui il sorriso di uno studente per la via diventa «ricompensa e guiderdone / raffrontato alla misera pensione».
In questo contesto si colloca Legato, un componimento pregno di sensibilità materna ma vibrante come una lezione appassionata in cui la poetessa raccomanda ai giovani di non dimenticare il passato, «gli errori e le vergogne della storia / perché l’indifferenza, arido ghibli, /in voi non crei a rilento / il deserto crudel della memoria».
Nell’ambito pedagogico rientra anche Alla mia professoressa, tenerissima dichiarazione d’amore della poetessa alla sua professoressa «bella come sempre», che la chiama ancora «Morgantina»: la scuola come trasmissione di cultura e la cultura come insostituibile àncora dell’esistenza vi trovano la giusta intonazione stilistica, scansando le trappole della retorica, da un lato, e della sciatteria dall’altro.
Ugualmente misurati e pregni di saggezza popolare sono i consigli che la poetessa offre a un amico per il suo bene: si astenga, come lei, dalle carni (magari dopo essere stato, almeno una volta, al macello) e si nutrisca «di ceci, di fagioli, / riso, orzo, fave e poi di tante cose / che potrai aver dagli animali vivi», se vuole tenersi «lontano dai dottori» (La vegetariana). Mista d’arguzia è d’ironia è l’osservazione finale che «il Signore», nel dividere «pesci» e non «broccoletti», «parlava a tipi di dura cervice»: oggi noi siamo «un po’ civilizzati / e possiamo decider con l’arbitrio».
Alla poetessa non sfugge, certo, lo scoramento della donna di oggi, abbandonata dal marito che «fuggì via con la prima ninfetta / sognando paradisi tropicali», ma tuttavia decisa a lottare per amore dei figli e nel ricordo delle molte donne (da Didone a lady Diana) segnate dallo stesso amaro destino (L’abbandono).
Ottimamente figurano, peraltro, nella silloge, alcuni componimenti propriamente politici, in cui Maria Morganti Privitera affronta con piglio deciso, senza nulla concedere alla retorica ufficiale e al populismo dilagante, temi di tragica attualità. E si trasmettono immediatamente al lettore, per la forza delle immagini, i sentimenti da cui sono germinati: lo strazio per i migranti morti in mare, «pescati come tonni e allineati / tutti sulle banchine a Lampedusa» (Mare nostrum); il lamento sull’ultima «strage d’innocenti in Siria», mentre «solo Francesco continua a pregare / il Dio di tutti, il Dio dell’accoglienza» (I bambini di Siria); il pianto «per l’agonia di un candido gabbiano» e la denuncia della criminale gestione dei rifiuti, cui la poetessa si oppone come «la vecchia colona / che non buttava l’acqua della pasta / né la crosta del pane rinsecchita» (Povera Terra); il dolore «per la morte del piccolo Aylan / scappato dall’inferno di Kobane» (Piccola sfera).
Riescono, poi, perfettamente calibrate le affettuose (senza smancerie) e intelligenti dediche a uomini e donne illustri, che hanno accompagnato la crescita umana e culturale della poetessa: Emily Dickinson, Cesare Pavese, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Albertazzi.
E, alla fine, in chiusura, la bella, ironica e tuttavia pensosa, originalissima Preghiera di una donna serena e pacificata col mondo, che chiede a Dio, con accenti conversevoli, autoironici, familiari, di concederle la dipartita in un giorno non festivo, per non togliere nulla, nemmeno la piccola gioia dell’onomastico o del compleanno, a figli e nipoti.

 

 

 

 

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