Scheda
Dayla ride. Ride per nascondere il dolore che l’accompagna per tutta la sua vita. Fingere che tutto vada bene e rifugiarsi nel buio sono il solo modo che conosce per sopravvivere alla cruda realtà. Costretta, bambina, a subire le violenze da parte di chi avrebbe dovuto prendersi cura di lei, crede di trovare la salvezza in un viaggio che la porterà lontano dalla Sicilia, dall’amata nonna e dalla migliore amica. E forse anche lontano da se stessa, perché non sa ancora, Dayla, che il male la seguirà, assumendo altre forme…
Note della protagonista
Mentre leggo per l’ennesima volta questi fogli rivivendo così il mio calvario, ad accogliermi non è una calda e comoda poltrona perché il velluto stonerebbe a far da contorno alle mie spine. Già!
Gli aculei della mia storia non appartengono alla bellezza di una rosa, e nemmeno sono degne di pietà come le spine che ferirono il capo di Cristo, anche se, credetemi, non sono meno dolorose.
Sono sempre stata un fantasma nel mondo, e persino ora nel raccontarmi ho dovuto censurarmi per la vergogna di aver subìto tanto. È inaccettabile, inumano vivere come io ho vissuto e per tutto quello che ho dato a chi credevo di amare. Nonostante il fastidio, la rabbia e la pena che avete sentito dentro di voi nel leggere la mia storia, vi assicuro che è nulla rispetto ai graffi che sta subendo la mia anima adesso, mentre cerco di rimettere al buio alcuni fogli che contengono verità che per non turbarvi ulteriormente e per pietà verso me stessa ho deciso di non raccontarvi. Mentre lo faccio, la mia mente è assalita e vinta da flash carichi di immagini che mi esplodono nella mente.
Il dolore è pesante a leggerlo, meno a vederlo: l’immagine di un volto riflesso in uno specchio trasformato dalla droga, un volto dallo sguardo spento che non rivive neanche quando si riconosce; l’oscenità di desiderare il mio carnefice, e di averne piacere quando egli mi graziava; il rumore di un rasoio elettrico che priva una donna di un bene prezioso come i capelli; il dolore della luce che con crudeltà spazza via dagli occhi il buio che per tanti giorni hai dovuto vivere; l’essere costretta a diventare il mio peggiore incubo quando mi venne imposto di esercitare il potere del dolore su un’altra; l’umiliazione di essere privata del pane per giorni e vedere lui mangiare e buttare dentro una ciotola del cane i rimasugli, posandola a pochi metri da me e non poterci arrivare; ogni rumore reso straniero e nemico dall’oscurità imposta che mi faceva sobbalzare il cuore; il freddo del metallo che mi teneva prigioniera; e di tutte le volte che dopo aver indossato droga, mi avventurai in boschi pieni di lupi umani pronti a sbranarmi.
Non posso fare a meno di accennarvi questi miei scatti, perché significherebbe continuare a fare finta. Non ho più la purezza di quella bambina, non ho più neanche la forza, l’ostinazione di sorridere quando dietro agli occhi ho un fiume in piena che aspetta solo di uscire. Dopo tanti anni da quella mia fuga non è che la mia vita sia cambiata molto, vivo ancora nel buio.
Ero tornata per riprendermi ciò che mi avevano tolto, ma poco dopo il mio arrivo la mia adorata nonna morì, lasciando dentro di me un vuoto incolmabile. Il vuoto diventò abisso quando affrontando il mostro di mio zio, appresi che ero stata tradita anche dall’unico affetto che credevo di avere: mio padre. Egli non ebbe scrupolo alcuno di farsi pagare da lui una somma e far passare me come una bugiarda.
Non ho più voglia di fare finta, perché è stata lei a rovinarmi: non facendomi vedere, capire, dire, non avevo fatto altro che chiudere gli occhi di fronte ai miei mostri.
Sono entrata nei lati più nascosti della mia caverna, cercando di distruggere resistenze e favole che mi sono costruita e raccontato. Ho riconosciuto e accettato tutto di me e della mia vita, e ho capito che tenere questa storia solo per me sarebbe stato l’ennesimo atto di codardia. Non me ne vogliano i ben pensanti, ma in questa terra molte donne hanno perso la vita, io stessa in un attimo di disperazione ho indossato una corda al collo e anche allora furono mani nemiche a “salvarmi”; tante hanno vissuto da morte perché si sono sentite sole nel loro dolore. A quest’ultime dedico questa storia, per offrire loro un paio di occhi, un cuore e la testa uguale a quella loro, che non giudica, che non le faccia sentire più pazze ma che le riveli per quelle che realmente sono: vittime.
Didy
25 aprile 2022
Nota biografica dell’autrice
Maria Caltabiano nasce a Bronte nel 1974 dove ha concluso i suoi studi di scuola superiore. Ha sempre amato e preferito studi di natura umanistica, mossa dal motto che ha modella da sempre la sua vita: “sono sempre alla ricerca del dettaglio che dà unicità a ogni persona”. Impegnata nel sociale, ha svolto e svolge tutt’ora attività di volontariato presso associazioni locali. Questa sua propensione verso l’altro, l’ha portata a riprendere gli studi e con una tesi sulla trasmissione intergeranazionale della violenza si laurea nel 2021 in Scienze dell’educazione. Lavora come educatrice presso un centro diurno per disabili a Bronte, ed è proprio dalla sua “vocazione” che nasce in lei il bisogno di raccontare un altro genere di disabilità, quella che non è stata data dalla natura ma dalla società. Società che lascia andare, che non si sofferma davanti alla sofferenza, che rende invisibile tutto quello che non appare “normale”.