“Si minore” di Marco Ercolani

11,00

POESIA | ULTERIORA MIRARI  | Monografie Poesia 2012
Pagine: 92
ISBN: 978 88 6300 061 0
Edizione: 2012
Euro: 11,00
Formato: 15×21 cm
Rilegatura: brossura fresata

Esaurito

POESIA | ULTERIORA MIRARI  | Monografie Poesia 2012

Si minore

di Marco Ercolani


Nota biografica

Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. La scrittura apocrifa e il nodo arte/follia sono le sue ossessioni dominanti. Pubblica il volume collettivo L’arte come evento: tra follia e salute (Graphos, 2002), che raccoglie le relazioni del convegno omonimo, svolto a Genova – S. Olcese nel 2000. Partecipa a una manifestazione internazionale sull’opera dello scrittore polacco Bruno Schulz (Trieste, novembre 2000 – gennaio 2001), i cui atti sono raccolti nel volume Bruno Schulz: il profeta sommerso, a cura di Pietro Marchesani (Libri di Scheiwiller, 2000).

Suoi saggi appaiono per le Edizioni Via del Vento in: Alberto Giacometti, Un personaggio vago, 2005; Bruno Schulz, L’epoca geniale, 2006.

Scrive due plaquettes per Alberto Casiraghy: Io scrivo di notte, con un disegno di Jgor Ravel, Osnago, Edizioni Pulcinoelefante, 1999, e Superfici, con un frammento di Enzo Fabbrucci, ivi, 2002.

È stato redattore della rivista di cultura psicoanalitica «Fanes» (1989-1991), di «Arca» (1992-1997) e «Arca. Quaderni di scrittura» (1997-2004).

Collabora ai siti web: La dimora del tempo sospeso, Zibaldoni, Fili d’aquilone, Biblioego, Doppio zero, Poesia 2.0. Nel 2010 vince il premio Lorenzo Montano per la prosa inedita con Turno di guardia.

È autore di diversi libri di narrativa, tra cui: Le mani e la follia (Il Torchio, 1979), Studi della paura (ivi, 1982), Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Praga (Ripostes, 1990), Il ritardo della caduta (ivi, 1990), Visioni della natura (Corpo 10, 1991) Taccuini di Blok. 1902-1921 (ivi, 1992), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Solfanelli, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999), Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004), Il tempo di Perseo (Joker, 2004), Discorso contro la morte (ivi, 2008) e A schermo nero (QuiEdit, 2010).

Per la critica poetica pubblica: Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La Vita Felice, 2008); intorno al nodo arte/follia: L’opera non perfetta (Nicomp, 2010).

Una plaquette di prose e aforismi, Sentinella (Carta bianca, 2011) e un volume di “racconti” psichiatrici, Turno di guardia (Il Canneto editore, 2011), sono i suoi libri più recenti.

Con Lucetta Frisa scrive L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Contrappunto (Lietocolle, 2000), Anime strane (Greco & Greco, 2006; Aîmes inquietes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011) e Sento le voci (La Vita Felice, 2008; J’entends les voix, tr. fr. di Sylvie Durbec, ibidem), e dirige la collana I libri dell’Arca per le edizioni Joker (fra gli autori tradotti Maurice Blanchot, Alain Borne, Bernard Noël, Dieter Schlesak, Gherasim Luca).

In versi pubblica Il diritto di essere opachi (La Vita Felice, 2010).


Passaggio segreto di Mauro Germani

Da dove provengono le visioni che ci consegnano questi nuovi versi di Marco Ercolani? Esse sembrano venirci incontro un attimo prima del loro dissolvimento, colte nel loro passaggio segreto, in quella zona di confine – prossima e familiare insieme – in cui poesia ed esistenza si sfiorano e poi si tramutano l’una nell’altra, per dileguarsi infine nell’ombra totale.

Con la sua scrittura punteggiata dal silenzio, Ercolani ci avvicina all’Altro che è in noi, senza tuttavia sminuirlo, anzi conservandone la dimensione più propria e perturbante, l’enigma profondo che l’accompagna, in uno sguardo lucido e frontale. Ciò che ci sorprende è una visione netta e al contempo lieve, perché reca in sé la perentorietà del sogno, la sua illuminazione improvvisa ma anche la sua ineluttabile ombra.

Come in una sorta di taccuino di un’anima che si scopre sempre altra, straniera a se medesima eppure viva e palpitante, il poeta apre l’occhio e tende l’orecchio a quanto accade nel doppio regno del suo essere, in quel bordo, in quella regione estrema che sta tra la parola e il silenzio, tra la veglia e il sonno, tra la vita e il nulla. E nelle annotazioni del proprio tempo vissuto, dell’intimità della propria esperienza, gli sembra di scoprire le tracce disperse di un altro tempo privo di tempo, indecifrabile e indicibile, arcaico, le cui insegne altro non sono che la testimonianza incommensurabile del tragico, la cifra ultima del nostro destino.

Qualcosa è accaduto, qualcosa ha cancellato e ancora cancellerà. Quello che resta è l’indeterminatezza dei soggetti che si muovono in queste pagine, ombre che si cercano o fuggono, che scrivono contro le parole, che non sanno ritornare, che cercano scampo per un’altra esistenza.

L’amore, la scrittura, il sogno, che le poesie evocano, assumono la funzione di esperienze fondamentali, estreme, proprio perché rivelatrici d’altro. Come6

Chi sono? La loro identità è paradossale perché risiede nella loro ambiguità, nel loro essere senza-nome, nel loro accendersi improvviso e nel loro altrettanto repentino rabbuiarsi.

Ercolani, registrando la luce e la notte che trascolorano da questa soglia, si inoltra nello spaesamento dell’ossimoro, capovolge l’ordine del mondo, libera “lame di versi”, apre squarci sapienziali, con la traiettoria di uno sguardo che si spinge oltre se stesso, in un approssimarsi ineluttabile dietro il quale incombe l’ultimo orizzonte (“Come potremo? È un sogno, la terra,/ del nulla che verrà”).

E in questo scenario minacciato dal vuoto, le figure umane cercano la loro realtà, la loro consistenza, non solo nel mondo visibile, ma anche – e soprattutto – oltre.

ponti ultimi consentono il passaggio verso l’ignoto che siamo, verso quelle regioni umbratili, incerte o improvvisamente palpitanti, che contraddicono il mondo cosi? come noi crediamo di conoscerlo.

È questo il “si minore inudibile” con cui Marco Ercolani cerca la sintonia, prima del silenzio. Quel si minore che ci accompagna durante l’esistenza e a cui sovente non prestiamo ascolto, o che vogliamo rimuovere perché troppo perturbante, emblematicamente simile a quelle “cose familiari come estranee macerie / nell’acqua nera”, in un testo che prende spunto dalla recente alluvione che ha colpito Genova.

Le figure presenti in questi versi rivelano così, a poco a poco, i segni della nostra incessante inquietudine, divengono ciò che siamo ma che spesso non vogliamo riconoscere. Questo perché l’esperienza vissuta, annotata nella forma della poesia, si fa sempre Altro da sé, si carica di valenze ulteriori, necessarie. E la parola poetica è il sigillo di questo processo.

C’è dunque, immancabilmente, qualcosa di tutti noi, nei pronomi personali che sottendono i verbi dei vari componimenti. Così riconosciamo lo stringersi appassionato e improvviso degli amanti, “pelle contro pelle,/ ombra contro ombra”, “nel fuoco liquido”, quasi a sciogliere il mondo, a farlo sparire, perché “nessun amore è intimo”. Anche noi, nella lettura, sentiamo bruciare il desiderio di un’altra memoria, di una vita che resta e non sprofonda, grazie ad “epigrafi chiare”, “nomi che visitano cose/ suoni che sciolgono pietre per sempre”. Pure noi scriviamo il sogno, notte dopo notte, e a volte impariamo a vedere, “il pensiero trasformato in sonno”, entriamo nel “regno dei dormienti”, prima dell’ultima chiamata (“I morti, quando scriverò l’ultimo libro,/ mi chiameranno”).

Ecco, dunque, la scrittura, “l’arcaica manìa”, l’atto che cerca il respiro, il ritmo di un’altra lingua che vorrebbe “parlare per sillabe e per fuochi, / senza i confini del quaderno”. La poesia che nasce tra veglia e sonno, come “deriva di bellezza / dolore dell’origine, scia”, nella consapevolezza dell’illeggibilità completa dell’infinito. O, ancora, come “lieve terrore”, “compagna segreta”.

Non c’è immobilità in questi versi, ma un movimento lento che di sezione in sezione ci accompagna. Un trascorrere. Un mutare. Un cercare. Pur nella condanna della solitudine. Pur nell’abisso che si apre intorno, come nell’ultima sezione, nella quale si fa riferimento al XIII canto dell’Odissea e al tremendo incantesimo di Poseidone, che trasformò la nave dei Feaci in roccia, radicandola nel mare.

Perché nulla appare definitivo e si aspetta sempre qualcosa di ulteriore. Come afferma Eraclito, riferendosi alle infinite profondità del nostro essere: “Per quanto a lungo viaggerai, i confini dell’anima non potrai scoprirli tanto è profondo il logos che le è proprio” (fr. 45): è questo il nostro enigma, questo l’incessante movimento del destino che ci accompagna.

C’è quindi un luogo che sembra irraggiungibile, un percorso interrotto, un ritorno mancato (“Intanto / lunghe macerie si specchiano nell’acqua/ intanto noi/ non siamo più ritornati”). Una separazione, una distanza incolmabile, una vertigine, che inevitabilmente segnano ogni atto umano, ma al contempo c’è una misteriosa scia “a forma di nave” da inseguire, quando l’io superstite è un “lampo disseminato nelle onde/ infranto e lucente”.

Qualcuno è sopravvissuto, un po’ come tutti noi, ed invecchia “senza il ritmo dei flutti,/ in pacifica terra ignota”, sapendo che ciò che resta della sua storia è quell’abisso, quello strapiombo che fissa prima di precipitare nel sonno, come un’“ultima luce degli occhi”, come un “libro ulteriore”.

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