ULTERIORA MIRARI / Monografie / Poesia
Fragilità del bene
di Loredana Magazzeni
COPIE ESAURITE
Nota biografica
Loredana Magazzeni si occupa di poesia e traduzione. Ha pubblicato le raccolte La miracolosa ferita, (Archivi del ‘900, Milano, 2001), Canto alle madri e altri canti (DARS, Udine, 2005). Ha scritto articoli sul movimento femminile bolognese, sulla poeta Patrizia Vicinelli, sulla poesia femminile indiana in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna 1968-2007 (Bologna, Clueb, 2007), Per una fenomenologia del tradurre, Quaderni del Dipartimento di Studi linguistici sulla testualità e la traduzione dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (Officina Edizioni, Roma, 2009). È presente in riviste (Poesia, Tratti, Tracce, L’Immaginazione, Le Voci della Luna, Leggendaria, Leggere Donna) con poesie, articoli e traduzioni. Ha curato, assieme ad Andrea Sirotti, l’antologia di poesia femminile contemporanea di lingua inglese Gatti come angeli (Medusa, 2006) e con Fiorenza Mormile, Brenda Poster e Anna Maria Robustelli l’antologia Corporea. Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese (Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2009). Con quest’ultimo libro ha partecipato al festival PoEtiche Romapoesia 2010. Collabora con la Libreria delle Donne di Bologna.
Prefazione di Maria Luisa Vezzali
Tu ridevi quando segnavo i libri di cucina
con la stessa cura delle note di laboratorio
ma per me era lo stesso; gli stessi
dettagli dell’amore – sciogliere, filtrare, raccogliere
finché la verità è così piccola che si può mettere
sulla lingua.
Anne Michaels, Quello che la luce insegna (Giunti 2001)
Se esistere significa ancora essere gettati in un qui e ora, in un tempo e su una terra così fragili perché assediati dall’incuria, dalla smemoratezza e della morte, il “bene” sarà la pratica sommamente umana in cui persistere. Senza eroismi, naturalmente, e senza fanfare, lontano dalla tracotanza del costruire e del distruggere, quell’hybris smisurata di volersi Shiva e/o Demiurgo che ha segnato l’attività poetica di tanti (chi non ricorda i due bellissimi e disperati versi che chiudono la parabola poetica di Pound: «ho cercato di costruire un paradiso terrestre», «uomini siate non distruttori»?), piuttosto con l’attitudine, ostinata e femminile, del riparare, perché «nel riparare è il gesto più sapiente».
Sulla trinità di tempo/terra/bene si fonda la raccolta di Loredana Magazzeni, poeta nata a Pescara, ma radicata a Bologna dopo l’università, che proprio in questa città è diventata anima del Gruppo ‘98, nonché curatrice, traduttrice e organizzatrice instancabile di altri e soprattutto di altre. In questa laboriosità generosa c’è senz’altro un elemento del carattere di Magazzeni, ma anche più significativamente un tratto della sua poetica che, nutrita dalla vitalità icastica della poesia anglosassone da una parte e dalla linea vibrante delle autrici italiane e russe dall’altra, può prendere il nome, nel senso scheleriano, di “simpatia”, principio di condivisione e intersoggettività, un essere-perennemente-con-altri.
I testi di questa raccolta sono, infatti, un continuo colloquio. Con il padre defunto, con i gesti della madre rimasti incisi nei geni, con il compagno di vita, con l’Appennino dei ricordi giovanili, ma soprattutto con tutto ciò che è loquace ed eloquente nella sfera della natura, riconoscendo che ci ha generato nella «reciproca docilità»: il coniglio «che annusa nel buio», il cipresso che «ha spaccato la neve come un tuono», l’alba «uragano di passeri», «la voce muta delle formiche». Piccole vite palpitanti, storie di resistenza energica ma disarmata, cui, a ben sentire, ci unisce un’alleanza, ristoratrice «come una tazza di tè» che «scalda il palmo».
Non a caso queste poesie emanano calore, avvolgono il lettore nel «magma di se stesso» o in ciò che «brucia nell’istante», in «silenziose braci» o in fuochi da custodire, mostrandogli un faro anche nelle regioni d’ombra che più lo spaventano: certo in primis la morte, ma pure innumerevoli altri sussulti del cuore che colgono di fronte alle domande radicali sulla conoscenza, sulla possibilità di redenzione dal tempo, e in particolare dalle devastazioni di questo tempo.
Per non perdersi nelle battaglie che ci toccano quotidianamente, bisogna, dice, soprattutto fare ordine, ridurre le questioni a tre coordinate che ci sono antropologicamente note e necessarie da sempre: la forma, la luce, l’armonia. Questo triplice problema, che in fondo non è altro che una personale definizione di kalokagathìa, di tutto ciò che è intrinsecamente-bello-e-buono, per un poeta vuol dire: 1) lavorare sulle parole finché musica e sintesi, immagine ed evocazione, non si condensano in un verso contemporaneamente necessario e “celestialmente naturale” (forma); 2) indagare la realtà, senza ritrarsi davanti alla sofferenza o alla piccolezza, ma cercando di individuare sempre la possibilità residua, l’apertura rimasta, il fiato avanzato per superare la salita (luce); 3) restare in ascolto, mantenersi in una condizione di ricettività e relazione, sfondare i limiti dell’io per collegarsi e rappresentare le altre vite (armonia).
Tale programma, così precisamente espresso nel primo, fondamentale, testo della raccolta, è sviluppato nel resto dell’opera in modo così coerente e sciolto che potrebbe sfuggire il suo carattere imperativo. Eppure, se si percorrono queste poesie con attenzione, non si può non avvertire che tutte portano avanti, con passo leggero, ma sicuro, questa ricerca e che in questa ricerca coinvolgono l’esperienza attiva del vissuto personale del lettore.
In siffatto modo trova una via nuova al discorso lirico, consapevole di aver ormai bruciato i rischi di solipsismo e verbosità, uno stile in cui la voce sa modulare i tasti del canto abbandonandosi e abbandonandoci alle risonanze varie e profonde delle emozioni: «Tu conosci il dolore. Hai / gli arti di un uccello. / Prensili e fini. Ti lavora il tempo»; «I capelli si sono fatti trasparenti. / Come una scia di luna dentro l’acqua.»; «che eri la casa dell’ombra / che eri qualcosa di oscuro invisibile / che continua a fiorire a finire». In questi esempi si sente facilmente come sia il respiro a fondare la sintassi, dettare i silenzi, le riprese e le pause, a costruire il senso sfruttando tutti gli attrezzi a disposizione, come per esempio l’allitterazione sapiente di quella “i” che riproduce tanto il suono del pianto quanto l’immagine dell’arto sottile dell’uccello, oppure l’anafora altrettanto toccante di quel “che”, arduo nella sua funzione ora di pronome ora di congiunzione, a scavare nell’esigenza bruciante di “pretendere un senso”.
«Parliamo di cose normali vivendo» ci dice Magazzeni con quell’antiretorica che caratterizza la sua scrittura e la sua persona, ma di questa normalità i confini sono nobilitati e ampliati fino a contenere citazioni colte, inversioni auliche, termini preziosi come “glauco” e “cartiglio” o anche tecnicismi. Il più perfetto dei quali si trova forse in explicit, quel “vento pulsante” che per i metereologi ha un senso preciso (una corrente a raffiche d’intensità variabile e direzione stabile), ma più ancora per la poesia, perché riproduce con la sua intensità intermittente e la sua fedeltà all’oggetto le pulsazioni desideranti di una memoria viva come un cuore, che cambia con il passaggio degli individui e l’indebolimento saltuario dell’energia. A riprova che lo sguardo dell’autrice sa contenere la gamma intera dell’esperienza e che, in buona conclusione, «se hai le parole puoi salvare.»