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“Chiamatela Venerdì. Storie di quotidiana violenza domestica” a cura di Guendalina Di Sabatino

12,00

Pagine: 132
ISBN: 978-88-6300-265-2
Edizione: dicembre 2021
Euro: 12,00
Formato: 14,8×21 cm
Rilegatura: brossura fresata a folio

Prefazione di Stefano Ciccone, postfazione e riflessione di Lea Melandri

 

Prefazione a cura di Stefano Ciccone

 

Le violenze contro le donne si ripetono ogni giorno. Ogni volta, quando l’abitudine sta per avere la meglio, arriva un omicidio più efferato, si varca un’altra soglia di orrore o si sommano nell’arco di pochi giorni un numero di uccisioni che risvegliano l’attenzione dei media e l’indignazione sui social.
L’indignazione è certamente una cosa buona, è una scossa che ci ricorda che “bisognerebbe fare qualcosa”, che non possiamo restare indifferenti. Ma, specie sui social, l’indignazione può essere anche una trappola o, peggio, una comoda via di fuga, più o meno consapevole.
Leggo di invocazioni di pene severe, vedo una gara a chi condanna con più forza il mostro che uccide, leggo anche un’insofferenza verso i tentativi di capire, e una diffidenza verso i tentativi di promuovere cambiamenti nei singoli uomini autori di violenza e nel mondo maschile in generale. Capisco, appunto, l’indignazione ma questa dovrebbe aprire alla disponibilità di una fatica che è quella necessaria per il cambiamento.
Paradossalmente liquidare gli autori di violenza come mostri non accende una reazione più netta contro la violenza ma la anestetizza: io non conosco mostri e dunque non mi riguarda. Sì, vedo che mia zia ha lavorato nel negozio di famiglia e dopo quarant’anni si trova senza contributi, senza un conto in banca e col marito che gestisce tutti i soldi, sì vedo la mia amica che da quando sta col nuovo ragazzo è in difficoltà a uscire da sola con noi la sera come facevamo prima, sì sento le battute in ufficio sulla collega che fa carriera perché è stata carina col capo, sì vedo le ragazzine e i ragazzini che per dirsi che si amano scrivono i loro nomi su un lucchetto, lo attaccano a una catena e buttano la chiave, sì vedo il rancore del vicino contro l’ex compagna che se ne è andata e prima sentivo le sue urla in casa, sì vedo quando il mio amico zittisce la moglie… ma questo è altro rispetto a chi uccide una donna con venticinque coltellate, chi uccide anche i propri figli o chi brucia il corpo della donna che ha ucciso. Quella violenza non appartiene al mio mondo.
E se non mi appartiene cosa posso fare? Esigere che lo mettano in galera e buttino la chiave così non lo avrò più davanti agli occhi. Come quando ho fretta e spazzando metto la polvere sotto il tappeto perchè la mia stanza sembri pulita. Non è affar mio: se ne occupino la polizia, gli psichiatri, i criminologi. Non devo fare nulla, non devo cambiare il mio modo di pensare la famiglia, l’amore, la gelosia, basta allontanare i violenti.
E non ditemi che possono cambiare: mostri si nasce o ci si diventa ammalandosi, la violenza non nasce da come siamo stati educati, da come abbiamo imparato a vivere il nostro desiderio, non ha a che fare con le rappresentazioni di famiglia e con le aspettative che ci hanno abituati a nutrire verso donne e uomini. I violenti non cambiano e neanche gli uomini. Questa affermazione sembra attestare una più netta radicalità, un conflitto più duro verso la cultura e il dominio maschili. In realtà finisce di nuovo con cadere nel fatalismo. Si sa che gli uomini sono così. E invece dovremmo produrre un conflitto quotidiano e diffuso, senza dare nulla per scontato. E invece dovremmo fare la fatica di riconoscere il cambiamento, gli spostamenti e metterci in relazione e dialogo, non con benevolenza ma, al contrario con un’apertura esigente e rigorosa.
E le donne? Le donne uccise restano solo lì come vittime di un fenomeno naturale distruttivo ma inevitabile. Restano lì nel ruolo muto di vittime bisognose di una protezione: statale o maschile? E se quelli sono dei mostri, dei personaggi violenti orribili e devianti, perché quelle donne ci hanno vissuto insieme per vent’anni, perché se ne sono innamorate? Delle poverette? Anche loro con qualcosa che non va? E se questo qualcosa che non va riguardasse tutti noi? Le aspettative che mettiamo in gioco nelle relazioni, i modelli maschili e femminili che amiamo e desideriamo? Quella protezione che diventa controllo, quella gelosia che consideravamo misura della passione e che diventa una galera, quella determinazione autorevole che si rivela arroganza.
In ultimo dovremmo considerare come questa indignazione intransigente, che taglia corto e rifiuta di affrontare la complessità delle radici diffuse della violenza si offre alla strumentalizzazione populista e della destra che ne fa materia per una retorica che egemonizza il senso comune producendo uno spazio sociale nemico della libertà delle donne e delle differenze. Affidarsi alla vendetta sociale, alla punizione, alla mera soluzione poliziesca finisce per fare appello a un ordine patriarcale fondato sulla gerarchia tra i sessi e sul controllo. Questo non vuol dire escludere l’intervento penale e la repressione della violenza maschile contro le donne ma evitare l’illusione di delegare a questo apparato la soluzione. La soluzione è solo nella trasformazione di ruoli e immaginario sessuale condivisi e per farlo serve conflitto nelle relazioni e nella società, serve pensiero, consapevolezza e un nuovo sguardo sulla realtà. E questo non ce lo darà la galera.
Da molti anni sono impegnato, come uomo, in un lavoro di riflessione ma anche di iniziativa contro la violenza maschile sulle donne. Eppure ogni volta, quando le singole storie non ci arrivano dal frettoloso articolo di giornale (“maltrattava da anni la moglie”, “aggredisce la compagna che voleva lasciarlo”), non riesco a non restare colpito dal senso di oppressione, angoscia, solitudine e disperazione che emerge da racconti come quelli che qui ha curato Guendalina di Sabatino.
Una violenza che appare incomprensibile e che queste stesse donne faticano a riconoscere, a considerare una realtà contro le promesse, i momenti felici, l’amore provato per quegli uomini. E loro stesse cercano di trovare spiegazioni a qualcosa che appare inspiegabile: un odio, un rancore e un disprezzo che emergono da chi aveva dichiarato, e dimostrato, amore; un’insofferenza da parte di chi le aveva tanto corteggiate, la gelosia da parte di chi le tradisce, la disperata dipendenza dichiarata da chi le umilia, la crudeltà dopo averne conosciuto la tenerezza.
E anche per noi che leggiamo la prima reazione è considerare questi uomini “orchi”, usando le parole di una delle protagoniste, mostri capaci di una violenza imprevedibile, incomprensibile e ingiustificata.
Ma proprio il racconto delle storie, della quotidianità familiare, dei progetti, delle vicende quotidiane ci porta a riconoscere che ognuno e ognuna di noi ha incontrato e conosciuto qualcosa di simile, magari in gradazioni e forme diverse. Sentimenti simili, rancori, pretese, ipocrisie, meschinità, dinamiche di potere, di rivalsa, desideri di controllo e dipendenze non riconosciute. Se in questo caso traducessimo la frase di Terenzio Homo sum, humani nihil a me alienum puto assumendo l’uomo non come umanità ma come universo maschile, potremmo dirci che per un uomo nessuno di questi racconti di non amore, di controllo, dominio e violenza maschile può essere liquidato come estraneo. La commedia da cui è tratta la frase ha il titolo significativo de “Il punitore di se stesso” e spesso come uomini ci limitiamo a punire e giudicare, anche a fare mostra di pentimento e autocommiserazione. Più difficilmente proviamo a guardare, per capire e, magari, per riconoscere qualcosa di noi.
Le storie raccolte da Guendalina di Sabatino ci riportano le vite di queste donne ma, leggendole, si può provare a guardare attraverso i loro occhi, l’anima di questi uomini. Il loro bisogno di esercitare un potere che più è arbitrario e più conferma il proprio ruolo.
Una possessività che non è indice di attaccamento e si esercita anche quando si accompagna con il tradimento. La relazione come feticcio o come peso da cui emanciparsi e da dimenticare in un cassetto, salvo quando smette di essere un panorama certo e rassicurante e si incrina per la scelta di autonomia di quella donna data sempre per scontata.
Non sopportare una donna che ci incalzi e ci metta di fronte a noi stessi e ai nostri limiti, ma anche che ci costringa all’intimità, a una relazione in cui dover dare conto a qualcuno di se stessi.
Per molti uomini l’agio, la libertà, sembrano corrispondere all’isolamento, il fastidio per la presenza che non stia nei limiti in cui noi vogliamo relegarla.
È difficile riconoscere che ci sia un legame tra molti nostri sentimenti profondi: il mito di bastare a se stessi, l’addestramento a rimuovere le proprie emozioni e a non riconoscere quelle altrui, il desiderio di controllo e la ricerca di relazioni che ci raccontino di un nostro ruolo attivo, autosufficiente, proiettivo, mai esposto alla vulnerabilità o alla dipendenza, l’insopportabilità di dover dar conto di sé e di quella parte di sé che neanche noi siamo abituati a guardare, la verifica della propria identità sempre fuori di sé a partire dalla propria performance, dal proprio dominio sull’altro, sulla natura e su noi stessi, l’amore come qualcosa che non si basa sulla reciprocità, che non prevede lo sguardo e il desiderio dell’altra ma che è mosso dalla nostra passione per un’immagine che deve corrispondere alle nostre aspettative e stare ai nostri tempi. Una donna da amare che stia lì dove ci aspettiamo e sia quello che vogliamo per noi.
E infatti la negazione della propria violenza da parte di questi e di altri uomini non è, solo, frutto di una strategia difensiva. È anche parte di una incapacità di capire e vedere. “Io non sono così”. È lei che mi ci fa diventare, e per questo merita doppiamente la violenza che ha sollecitato. Io non sono così perché quell’amore era percepito come sincero e profondo e la furia di oggi ne è la misura. Perché non capisco cosa voglia da me questa donna, perché non mi lascia in pace, non mi lascia vivere nella mia realtà autoreferenziale accettando di esserci quando la cerco.
In molte storie emerge il ruolo simbolico e concreto del denaro come riferimento e fondamento del potere: strumento di controllo ma anche di affermazione della propria autosufficienza e padronanza di sé. I soldi usati per fare regali, i soldi controllati per imporre una disciplina, negare i soldi per negare autonomia. Ma anche tenere i soldi per sé, senza condividere le informazioni lasciando che la donna si faccia carico della gestione della casa.
A volte paiono uomini che desiderano vivere da “scapoli” con una donna che gli dia dei figli e gli gestisca la casa.
Cosa porta un uomo a volere che la donna che ha accanto non sia nessuno? Perché ha bisogno di disprezzare la propria compagna? Di disumanizzarla, di renderla “come un animale, come un negro” da battere per ridurre alla docilità?
Perché volerla “come una bambina” da educare, proteggere e guidare, che si affidi a noi? Abbiamo così bisogno della negazione dell’altra per avere conferma del nostro posto nel mondo? Quanto è fragile l’idea di sé di un uomo che teme la libertà dell’altra?
Ma c’è anche la violenza contro i figli o contro le madri: una violenza anch’essa strettamente legata a un “ordine di genere”, al bisogno di affermare il proprio dominio e di negare la propria dipendenza, di schermarci dalle relazioni. Uomini che quando sono in casa non vogliono essere disturbati, che non vogliono sentire di essere vincolati dalla famiglia nella loro “socialità”.
Queste storie raccontano la violenza, le minacce, l’arbitrio, la negazione di libertà subita da queste donne ma, a pensarci bene, raccontano anche lo squallore della vita di questi uomini, l’assenza di relazioni significative, l’assenza di spazi di intimità anche a dispetto della presenza di famiglie, mogli, amanti, figli… Vite ottusamente chiuse nell’autoreferenzialità, incapaci di reinventarsi anche di fronte a traumi e cambiamenti, incapaci di riconoscersi e ascoltarsi, vite coi paraocchi che impediscono di guardarsi attorno e di uscire dal campo visivo permesso da proprio ruolo. Non solo vite che giudichiamo per il loro contenuto di miseria ma con cui non mi sentirei di fare a cambio per la povertà che rivelano, la sordità l’egoismo di cui sono prigioniere.
E certo queste storie raccontano anche come la relazione di violenza non sia mai “a due”: ci sono spesso le famiglie, le madri, i padri che possono nascondere, negare, o sostenere chi subisce la violenza, ma ci sono anche le famiglie introiettate che portano a replicare destini o a rendere inconcepibili altre scelte. La violenza, di nuovo, interroga tutti e tutte noi, la nostra idea di famiglia, di amore, di protezione, di seduzione, di libertà e potere.
Se questo è il tema l’appello a impegnarsi contro la violenza è al tempo stesso necessario e ambiguo.
Ciclicamente, davanti all’ennesima violenza maschile ritorna la denuncia del silenzio maschile, l’appello a un impegno concreto degli uomini. Ma qual è l’impegno che più comunemente si chiede agli uomini? Di isolare i violenti, di proteggere le donne, le proprie, dalle violenze e dalla minaccia rappresentata dagli altri. Oppure a essere uomini, per bene, rispettosi, protettivi.
Ma se andiamo a vedere cosa ci raccontano le storie di violenza nascoste nelle relazioni di intimità, e se vediamo l’uso politico del riferimento alla virilità, alla protezione paterna, alla complementarietà tra i sessi ci accorgiamo che questi appelli si mostrano pienamente coerenti e interni a quell’“ordine” che ha fatto sentire quegli uomini legittimati nell’esercitare violenza in suo nome o come reazione alla sua indebita rottura. La protezione riproduce un ruolo che giustifica poi il controllo e ripropone una presunta debolezza femminile. L’appello alle buone maniere rappresenta la violenza come disordine, come frutto della perdita della tradizionale capacità virile di autocontrollo mentre è figlia proprio di quella idea di virilità tradizionale, non della sua scomparsa.
Il tema è come agire, come uomini, come uomini eterosessuali in conflitto con un sistema che ci dà potere e privilegio ma che al tempo stesso impoverisce le nostre vite. Come costruire un cambiamento a partire da questa posizione. Qui dobbiamo capirci tra noi: o consideriamo che la posizione maschile produca solo privilegi (e allora è comprensibile la diffidenza e, soprattutto, l’unica molla può essere il volontarismo solidale) oppure pensiamo che questo sistema generi una miseria nella vita degli uomini, che il potere imponga la disciplina della virilità, imprigioni la sessualità nella prestazione, rappresenti il corpo come arma e macchina, allontani dall’ascolto delle proprie emozioni, rattrappisca la socialità tra uomini, riduca la paternità a un ruolo distante, astratto e formale.
In questo caso possiamo riconoscere la virilità come costruzione e quindi come costrizione e pensare un percorso maschile di cambiamento.
Ma per questo abbiamo bisogno di costruire parole condivise, collettive, riconoscibili per raccontare questa diversa collocazione degli uomini nel cambiamento. Abbiamo bisogno di pensare una libertà nelle relazioni e non dalle relazioni, del corpo e non dal corpo, abbiamo bisogno di costruire una nostra idea del nostro stare al mondo che riconosca il valore della nostra esperienza umana nella sua parzialità, che non dipenda dal potere e che non abbia bisogno di “proteggerci” dalle relazioni ma che ci porti a riconoscere che vivere delle relazioni e nelle relazioni non è una prigione ma l’unico possibile esercizio di libertà.
Non è facile ma…

 

Passivamente, ubbidivo
Postfazione di Lea Melandri

 

Ho riletto più volte le testimonianze raccolte da Guendalina Di Sabatino su quella violenza domestica che, come una maledizione, si trasmette da una generazione all’altra: figli che assistono ai maltrattamenti sulle madri e che a loro volta li faranno subire alle donne della loro vita. Figlie che hanno vissuto ogni giorno “senso di offesa, umiliazione e impotenza”, “una infanzia al buio, senza giochi e senza fiabe” e che nell’età adulta finiscono per scegliere un ragazzo violento come il padre.
“Quando vivi in un ambiente violento, la violenza diventa normale”. A dirlo è la donna il cui il nonno, infiammato dalla rabbia di aver visto nascere una “femminuccia”, voleva imporre che fosse il calendario a deciderne il nome: “Chiamatela Venerdì”.
Il racconto di esperienze particolarmente dolorose, già di per sé difficile, quando si tratta di maltrattamenti all’interno della famiglia, a cui si è assistito o che di cui si è state oggetto, incontra un ulteriore limite, che è la loro “impresentabilità”. Per questo sono particolarmente preziose le voci di chi ha deciso di portare allo scoperto, insieme alla violenza subita, l’ambiguità di un dominio che è andato a confondersi con le vicende più intime, come l’amore, la sessualità, la maternità.
Per essere io uscita poco più che ventenne dalla famiglia d’origine portando ferite tanto profonde che non sono diventate neppure ricordi, per l’ambiguità dei rapporti tra uomini e donne – uomini padroni, ma deboli e dipendenti, donne forti e vitali, ma svilite e maltrattate –, non ho avuto difficoltà a riconoscere le contraddizioni che hanno tenuto così a lungo nel silenzio quella che potremmo definire una “evidenza invisibile”: la ‘normale’, quotidiana violenza patriarcale, che si consuma tra le pareti di una casa.
Se essa arriva a imporsi così tardi anche nelle battaglie del femminismo – la prima grande manifestazione dei “collettivi femministi e lesbici” sulla violenza domestica è del 2007 –, è perché ragioni e sentimenti legati a un “amore malato” hanno fatto da velo.

“Tornavo a casa dei miei genitori, ma lui mi sapeva convincere con le lacrime e le implorazioni e tornavamo insieme […] io credevo che i comportamenti violenti facessero parte dell’amore […] Marcello riproduceva con me il clima violento che viveva in famiglia, pensavo che, essendo giovane, sarebbe cresciuto e maturato” (Dalila)

“Se non ci fossero stati i miei figli, lo avrei sopportato tutta la vita. Quando iniziarono le violenze non reagivo, ero interdetta, non riuscivo a capire perché l’uomo che mi amava tanto era così violento. Quello che lui provava per me non era amore, era solo possesso […] La paura di essere lasciato da me agiva costantemente e quando mi picchiava selvaggiamente io cercavo di tranquillizzarlo, lo accarezzavo, gli baciavo le mani e gli dicevo che gli volevo bene. Questo era l’unico modo per calmarlo.” (Liana)

“…cominciarono gli appostamenti, non si arrese e vestì i panni dell’umiltà: chiese scusa a me e a mio padre e mi pregò di accompagnarlo dallo psicologo perché voleva curarsi. È il padre di mia figlia, presa dai sensi di colpa, acconsentii.”
(Elvia)

Di fronte alla sequenza ininterrotta di femminicidi a cui stiamo assistendo, non c’è da meravigliarsi se, nel silenzio della cultura e della politica maschile, restia a prendere coscienza del dominio millenario del proprio sesso, a riconoscersi come “genere” e non come l’umano nella sua interezza, la risposta sono le imponenti manifestazioni femministe in tanti Paesi del mondo e, per un altro verso, l’urlo di indignazione che passa attraverso i social nella sua forma più immediata: “Basta!”
Sappiamo, tuttavia, di aver a che fare con un potere e una “schiavitù” diversi da tutti gli altri e con un capovolgimento paradossale di posizioni: l’uomo che è “apparentemente il padrone, di fatto dipende dal più debole”. Così scriveva J.J. Rousseau nell’Emilio (1762). In tempi vicini a noi, l’economista Antonella Picchio, con le consapevolezze nate dal femminismo, dirà che ciò che distrugge le donne “non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi.”
Sulla gravità di un fenomeno come il sessismo, che sta alla base non solo di un sistema economico, ma del modello di civiltà che abbiamo ereditato, manca a tuttora un’assunzione adeguata di responsabilità da parte delle istituzioni del nostro Paese. Ma ci sono altri silenzi che pesano forse di più, perché vengono dalla parte di cui si contano le vittime. Le donne oggi non mancano nella vita pubblica, sia pure in ruoli non apicali, ma dominante sembra purtroppo l’asservimento e l’obbedienza a una visione maschile del mondo imposta e fatta forzatamente propria. Anche quando ne sono consapevoli, le donne tacciono perché dissentire significa aprire conflitti e perdere opportunità.
Il mondo pubblico e il mondo privato “sono inseparabilmente collegati – si legge nel saggio Le tre ghinee di Virginia Woolf – le tirannie e i servilismi dell’uno sono le tirannie e i servilismi dell’altro.” Il merito della rivoluzione femminista degli anni Settanta, e delle sue pratiche – autocoscienza e pratica dell’inconscio – non è stato solo quello di aver preso distanza da tutti i dualismi che abbiamo ereditato, ma di aver portato l’attenzione sul polo relegato fuori dalla storia e dalla politica: il vissuto personale, le esperienze legate al corpo, alla sessualità, alla maternità, consegnate paradossalmente al privato, alla “natura”. Sono racconti e riflessioni come quelli raccolti da Guendalina Di Sabatino a restituirci ciò che nelle teorie e analisi sul sessismo ancora restano in ombra: le ambiguità, le contraddizioni di un dominio che ha intrecciato e confuso perversamente bisogno d’amore e asservimento, tenerezza e violenza.
“A volte era di una tranquillità e di una dolcezza assolute, mi faceva trovare bigliettini d’amore dappertutto […] Le donne maltrattate non lasciano l’uomo violento perché sono convinte di poterlo cambiare; una donna innamorata è capace di sopportare qualsiasi cosa.” (Liana)

 

Note biografiche sull’autrice

Guendalina Di Sabatino vive a Teramo. È laureata in Scienze Politiche. È stata dirigente politica nel P.C.I. di Teramo. Dalla fine degli anni Settanta è attiva nelle istituzioni e nei movimenti delle donne con attiviste, dirigenti politiche, scrittrici e teoriche del Femminismo italiano.
Il suo impegno sull’importanza della Memoria, sul rispetto delle diversità e sull’affermazione della soggettività femminile contro ogni forma di violenza costituisce il discorso e l’azione del Centro di cultura delle donne “Hannah Arendt”, associazione della quale è presidente. Con la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, è impegnata da più di due decenni a mantenere viva la Memoria della Shoah. Con Ires Abruzzo Edizioni, Pescara, ha pubblicato “Operaie tessili in Val Vibrata, tra industrializzazione e sindacalizzazione” (2009). Questa è la prima pubblicazione con la Casa Editrice Smasher.

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