“L’effimero fotografico” di Giulia Carmen Fasolo

10,00

ISBN: 978 88 6300 119 8
Edizione: luglio 2014
Euro: 10,00

SAGGIO SULLA FOTOGRAFIA

L’effimero fotografico

di Giulia Carmen Fasolo

Grafica e illustrazione di copertina a cura dell’artista Amalia Caratozzolo.


Il testo di seguito è presente all’interno del libro alla voce “Conclusioni”

La fotografia è, alla fine di questo assolo letterario, terapia. Fotografare è esperire; riprendere e pubblicare la mia fotografia consiste – nuovamente – nell’introiettare, elaborare, assimilare ed espellere lo stesso vissuto. La mia fotografia è più legata alla ricerca del particolare, perturbando (in senso freudiano) l’ambientazione umana per trovarvi nuove declinazioni. Il processo psichico del fotografare, nel mio scatto, immerge l’idea del mio Sé nell’esperienza passata e presente, conservando nel serbatoio della memoria a lungo termine e mascherando. Fotografare non significa solo prendere le distanze dalle mie proiezioni, inquadrare ciò che non mi piace e ucciderlo. Fotografare è un contenitore, un calderone che raccoglie diversi elementi della realtà che gestisco nella scena fotografica, come si fa in teatro. Sul piano psichico, il contenitore emotivo è così gestito nel modo migliore possibile per la mia economica cognitiva, tenendo conto del grado della mia resilienza nell’accettare e dover gestire ciò che non mi piace. Sopravvivergli, in altre parole. Paradossalmente, essendo la fotografia un supporto mnestico, tento di non riaprirla più; così declino al tempo verbale infinito: scattare, scoprire, dar vita al nastro, pubblicare e lasciare andare. Si riesce, difensivamente, a non doverci fare i conti tutti i giorni.

Lapalissiano: la mia fotografia è un prolungamento di meccanismi di difesa già oleati per l’occorrenza. Ecco perché concordo con Tisseron quando definisce la fotografia una “protesi tecnologica” (Ivi, p. 176) dell’apparto psichico. Una protesi che torna utile quando si ha l’interesse di soddisfare il bisogno di assimilazione e introiezione dell’esperienza, per poi divorarla e dimenticarla.

La fotografia è, pertanto, una sorta di interdizione del parlato a tutti i costi, poiché esprime il suo vissuto in altro modo, con altri segni, o simboli se preferiamo. La fotografia può sommergere, ad esempio, un’esperienza traumatica (si pensi alla mia foto all’obitorio di Bologna; cfr. Fasolo, 2010). Certi scatti in me incalzano il processo di contenimento e trasformazione psichica di particolari realtà, poiché sono una sorta di assembramento di elementi affettivi, sensoriali, rappresentativi, consci e inconsci.

La fotografia è uno schema identificatorio, esattamente come le imago (materne, paterne, fraterne, intrauterine, etc.). È potentissima, poiché può essere contemporaneamente una raffigurazione psichica della realtà e dell’irrealtà. Così come l’attività rappresentativa originaria nella psiche del neonato è bocca-seno (incontro fra un organo sensoriale e un oggetto esterno stimolante), per chi si lascia andare alla fotografia è imago-scatto (incontro tra una percezione interna e una rappresentazione “onirica” esterna).

La fotografia è una rappresentazione pittografica dei nostri fantasmi interiori.

La fotografia subisce contemporaneamente le nostre resistenze, il nostro transfert, la nostra emergenza psichica, l’identificazione simbolica. La dimensione visiva non è disattivata, ma gioca un ruolo prevalente il settimo senso (che va oltre i cinque sensi e il c.d. sesto senso), quello esclusivamente psichico: l’eccitazione dell’imago nella rappresentazione.

La fotografia dispiega gli scenari interni, ne racconta la captazione dell’immaginario, divampa la libido. È un’intercettazione interna della nostra sessualità. Così come noi scegliamo dal profumo della pelle ciò che riconosciamo appartenerci, così succede con la fotografia.

È un medium non solo del nostro narrato interno, ma anche una stampella relazionale con la realtà  esterna, che coniuga le similitudini e le differenze, appagando il vero e il verosimile.

La fotografia può essere anche un momento intimo, circospetto, rubato, sottratto, o vissuto solo e soltanto per noi. In tal caso, può essere mostrata attraverso uno dei tanti nostri mascheramenti identitari. Così come noi assumiamo un ruolo in base al frame nel quale siamo collocati (Goffman), così la fotografia assume le vesti che deve indossare in quel momento, nell’hic et nunc fotografico. Per soddisfare e dire esattamente ciò che deve dire: niente di più e niente di meno. Neppure quando aumentiamo la saturazione del nostro bianco e nero, asfissiando gli spazi, rimpicciolendo o ampliando tecnicamente alcuni settori di luce. Così il nostro godimento intimo può restare silenzioso, non necessariamente simboleggiato attraverso la parola, il segno convenzionale del detto.

La fotografia può divenire ciò che l’altro preferisce secondo la sua imago. Noi, invece, racchiudiamo la traccia e la sua efficacia, affinché si possa tornare a nascondersi.

La fotografia raccoglie l’impronta dell’effimero, il bianco e nero, agisce come agente psichico in noi e ne segue il suo tracciato. Evoca il nostro interno “come se”, mostrandolo in parte. La fotografia parla spesso al posto nostro, primariamente a noi, poi agli altri. Dice a volte il detto e a volte l’indicibile, ma racconta, narra di posti, di luoghi, di circostanze, di attimi e sofferenze psichiche. Utilizza un codice simbolico di spazi, dove la saturazione è strumentale per narrare. La trama di ricordi anche di ambienti sconosciuti ci permettono di tracciarne il nostro passaggio e di affermare che esistiamo, ci siamo, facciamo parte di questo mondo.

La fotografia cristallizza le pulsioni, i fantasmi, i desideri.

La fotografia è scattata mentre, paradossalmente, ci vede. Un po’ come fossimo il suo specchio e lei il nostro. La fotografia rappresenta l’assenza e allo stesso tempo accetta di esserne riempita, si offre a noi come supporto. La fotografia ci interpella, è il nostro viaggio interno, modula la nostra ambivalenza, ci fa ricordare gli oggetti perduti, ci accompagna nel lutto.

In una sorta di analogia morfologica, la fotografia assume esattamente la forma dei nostri organi interni. La fotografia è, infine, un incontro, una circospetta ombra sugli altri e sul resto del mondo.

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