POESIA
Prolusione dell’abbandono
di Giulia Carmen Fasolo
COPIE ESAURITE
Prefazione di Rosa Mazzeo
L’Opera Prolusione dell’abbandono raffigura la cesura biografica che divide un’unica esistenza esattamente a metà. Giulia Carmen Fasolo ha deciso, a distanza di anni, di riaffacciarsi alla finestra della poesia. Questa volta lo fa attraverso orme letterarie che lei stessa definisce sintagmi poetici. Questo quaderno, sia per la forma che per la struttura poetica del testo, assomiglia a un block notes per appunti. Sembra di avere tra le mani una rappresentazione delle visioni del mondo, ma non visioni qualsiasi, ma quelle tipiche di chi scrive e vive la sua quotidianità in modo monocromatico. Fasolo, in maniera incisiva, ancora di più rispetto alle pubblicazioni poetiche del passato (dove era più dialettica e meno alienata), è chiara ed evita ogni ambiguità linguistica. Il taglio delle proprie scelte, lontane dalle ambientazioni umane, assume anche qui (non solo nella sua fotografia) un aspetto quasi asfissiante. È evidente che a Fasolo le relazioni umane risultano ormai strette, morse da un lutto inesprimibile e inibitorio di ogni altra possibilità vitale. Lei stessa comunica, senza mezzi termini, il cosa e il perché delle cose. Sostanzialmente lo fa, scrivendo che queste medesime cose non le interessano più. Lo afferma con una netta convinzione e una disarmante semplicità, che ogni tentativo di persuasione inversa risulta frantumato sul nascere. Non vi sono metafore poetiche, ma una cruda realtà che non lascia scampo ad altre possibilità. La morte è il tema predominante e la sfiducia nelle cose di ogni giorno il fedele compagno. Qualcuno si affida a entità divine per superare lutti, separazioni, interruzioni. Fasolo, qui, si affida semplicemente alla diffidenza, che alimenta e rinforza quotidianamente le sue relazioni con ciò che non vive solo come “lontano da sé”, ma come un corpo estraneo dal quale ha deciso di difendersi. Gli altri (tutti gli altri) sono un unicum non al quale fare del male, ma dal quale proteggersi (che è cosa ben diversa) a tutti i costi.
Ma la bellezza della sua poesia sta proprio qui: nell’eloquio di ciò che vive, al quale – in verità – è costretta ogni giorno a sopravvivere.
Questo quaderno non è a doppio senso. Infatti, Giulia Carmen Fasolo non si aspetta una risposta. È una intera poesia, spezzata come avviene con la vita che non tolleriamo, ma che siamo costretti a sopravviverci ogni giorno. Non è neppure, però, un diario personale, dove l’anima di chi scrive si denuda e si dichiara al mondo nella sua costernante fragilità. In verità, qui è ben superata questa fase. Qui si evidenza la chiusura, netta e inossidabile. Ciascuna assenza può prendere le forme del lutto o semplicemente del silenzio, del vuoto, della non accettazione. Qui accade la medesima cosa. In questo, ritengo, vi sia il salto di qualità. Giulia Carmen Fasolo, infatti, non si aspetta di parlare per sé, né per gli altri, né – ancora meno – di riuscire a liberarsi da un pensiero saldo e persistente. Semplicemente, i sintagmi rappresentano – su suggerimento degli amici – la potenziale possibilità (ed è un tutto dire per chiunque) di lasciare andare chi già, in verità, è andato via per sempre (dimenticando di dire addio).
Prolusione dell’abbandono va semplicemente letto e colto nella sua lampante espressività. Va letto per ciò che è, ben lontano da un piangersi addosso o da una rappresentazione vittimistica della realtà. Prolusione dell’abbandono è semplicemente la realtà.
Post-fazione di Antonella Taravella
Ritorna Fasolo, ritorna con quel suo versificare asciutto e diretto che toglie il respiro. Sintagmi i suoi che sono lampi sulla carta, ma anche oltre in quell’oltre che toglie ogni via di fuga, non esistono e/o non si cercano. E torna mostrandosi più nuda di prima, attraverso quelle sue parole che sono dolore lampante, come l’assenza e quel suo affetto che non emerge e che tiene gelosamente chiuso nella profondità dei suoi occhi, occhi che sanno e dicono tanto a chi realmente vuole sapere e cercare.
È un percorso da cui è difficile staccarsi. Ci sento la possibilità negata mentre trascorro questa sua nuova piccola silloge, quel lento divenire nero che prende forma ed ogni passo fatto che è quasi la distruzione del precedente, quasi come a voler cancellare ciò che ammette nelle parole, teme i ricordi ma vive soprattutto di essi, perché non è cancellandoli che si rimedia alla perdita, ma bensì vivendoli quasi come un chiodo fisso che trapassa ogni giorno, un bisogno sapendo che l’amore ha forme spesso a noi sconosciute.
Prolusione ha una forza emotiva che si dispiega e abbraccia in qualche modo il lettore e anche la poetessa stessa. C’è ciò che non basta e si cerca ancora scavandosi, rimanendo impiastricciati in quel bisogno che è il tocco che lei stessa a volte evita, una barriera a ciò che vive e ha vissuto che non lava via nemmeno con le parole.
Ma forse una parte della “colpa” di questo suo non voler mostrare è proprio a causa di chi la guarda, per quella “apparenza” che lei stessa dice in uno dei suoi sintagmi che ha una paura persistente di far scorgere ad altri quelle parti nude, quelle parole che ci offre senza veli o almeno senza quei veli apparenti che creano solo possibilità di ferimento.
E lei ripete questo silenzio, prende ogni forma, dal cielo al respiro, dalla terra alle mani e questa mancanza che ancora, vorrebbe ammaestrare e vestire un po’ come meglio le piace per non donare al mondo ciò che invece resta solo suo.
Questa silloge è l’unione fra il commiato ed il filo sottilissimo che lega, ancora, a ciò che non si rende indimenticato.
Ogni pagina è storia.
Ogni sintagma è anche nostro.