“Esilio di voce” di Francesco Marotta

10,00

Collana | ULTERIORA MIRARI – Monografie
Pagine: 84
ISBN: 978 88 6300 043 6
Edizione: ottobre 2011
Euro: 10,00
Formato: 15×21 cm

Esaurito

Collana ULTERIORA MIRARI – Monografie

Esilio di voce

di Francesco Marotta


COPIE ESAURITE


Il volume

Prefazione di Marco Ercolani

Vortice immobile

1

Esilio di voce è il titolo dell’ultimo lavoro in versi di Francesco Marotta. Si divide in tre sezioni, Imago, Speculum e Vulnus. Dall’inizio della prima sezione, Imago, trascrivo questi due versi in epigrafe: “Si inciampa in un grido / che si dissangua in luce”. Sono i primi del volume, e ho la sensazione perturbante di avere già letto il libro, ho la percezione che tutto quanto leggerò tornerà inevitabilmente e circolarmente a questi due versi.

Marotta è sempre, e in questa raccolta forse con maggiore intensità, poeta di un vortice immobile del linguaggio: i suoi versi sono specchi ustori che traducono la tensione incandescente della parola, all’occhio e all’orecchio del lettore, in una sola poesia rifratta in tanti riflessi, che corrispondono ai versi e alle pagine del libro.

Nessuna parola così profonda

da poterla tacere

Il poeta non tace, continua a scrivere e a parlare: ma la sensazione, ancora una volta, è quella di un ardente e rigoroso autodafé, come un rito sacrificale in cui suono e senso ardono mescolati insieme, “mutilata la mano da una lama / d’inchiostro / che trema sul foglio”. Domina il sentimento potente e incontrastato di un gorgo dal quale non potere e non volere sfuggire: “ci accomuna la conta differita dei morti / la mano adusa a separare codici e correnti / dal gorgo dove si adunano le ore / indicibile chiusa / di apocrifi in sembianti di volti”.

2

La “luce di specchio”, il “graffio che resta”, “il sogno di un confine” – le immagini e le parole che Marotta ama ripetere nei suoi versi – sono sottratte alla loro liricità surrealista, al loro essere “arredo” barocco di una alta lingua poetica, e vengono, non dico “sporcate” ma sprofondate in un cortocircuito tragico tra dire e non-dire, e ne assumono nuova potenza. Mai, leggendo questi versi, assistiamo a quei riti consolatori che, proprio grazie a questo stesso lessico, i poeti formulano con tecnica raffinata, per crearsi i loro finti paradisi.

“assenza che sia illuminata erosione

un luogo che i sensi coincide

a un poi di riflessi se colma l’immagine

di grandine di minerali celesti e trascina

a ogni singola mano sangue di fuga

all’occhio l’identico accordo l’energia

perversa di un dono l’attrito

di maschera e volto

impaziente del balzo”

Marotta parla di un’assenza che non ricorda l’amnios materno o i deboli deliqui di un lirismo intimista, ma al contrario si fa “illuminata erosione”, e “l’attrito / di maschera e volto / impaziente del balzo” è proprio il tema centrale, una “finzione” tutta viva dentro il suo chiaroscuro, fra vero e falso, che insegue fantasmi violentemente reali.

3

La potenza di creazione/distruzione della poesia marottiana è racchiusa in questi versi:

“…un abisso

d’aria e correnti

che l’arte della pietra modella

per l’oblìo materno dell’alba”.

La vita è esattamente questa illusione disillusa, questa incisione graffiata nel vuoto.

Leggendo questa poesia, non si ha mai la sensazione che l’autore sia il regista assoluto del testo che scrive; non impone al lettore cosa leggere e come leggere, ma piuttosto è un umile e appassionato coordinatore di materiali – acqua, aria, terra e fuoco – che gli sfuggono sempre dalle dita, perché non può essere altrimenti. Il poeta può solo tracciare “il resoconto di un ramo l’ipotesi / di immagini” e vivere “sul confine tra cielo e memoria / ad altezza remota di lingua”.

4

Marotta parla di “quel tempo di amare che ha l’ombra / quando ne invochi il morso vivo / dove trovare riparo”. Parla di “vene a passo d’erosione”, di “verbi di declino”, di “un percorso che si rivela in squarci”: una visione tragica e definitiva del mondo. Percepisco una certa analogia con le fotografie dello sloveno Evgen Bavcar, il fotografo cieco, che dal mondo che non vede ricava frammenti in stato di transe, squarci di apocalissi, luminescenze di rovine. Un’immagine mi è rimasta impressa, e voglio restituirla come omaggio alla poesia di Francesco: un volto in penombra e una mano che schiaccia un pezzo di stoffa nell’occhio sinistro di quel volto. Le immagini di Bavcar – chiese, palazzi, rovine, volti, giocattoli – sono trasfigurate, perché l’occhio cieco e veggente del fotografo le guarda all’interno di sé. Non diversamente si muovono le parole nella poesia introflessa e visionaria di Marotta: “le sillabe raccogli che la mano nasconde / prima di cedere sotto la sferza / di un lampo / alla cecità di dare ancora un nome”.

5

In Esilio di voce il poeta lancia una sfida inattuale, da anacoreta: usare una poesia ermetica “a palpebre sbarrate / nell’esilio di voce”, rigorosa e tradizionale, per svellere i codici stessi della tradizione. Sa che un poeta, se si allontana troppo dalla natura della lingua per inseguire giochi verbali e acrobazie stilistiche, rischia di diventare un pittore “astratto” che non graffia più la sostanza delle cose. Marotta, pur non essendo un poeta “figurativo”, usa le parole dentro il loro senso e il loro suono abituali per farle vibrare di e per significati ulteriori, decostruendo la sintassi, inventando un’architettura neutra composta spesso di anacoluti e sospensioni tonali, trasformando la pagina più in una superficie pittorica e musicale che in un luogo soltanto verbale. E come potrebbe, un poeta surreale e violento come lui, restare all’interno delle logiche linguistiche se non sommuovendole come all’interno di un maremoto?

6

La “tempesta” metaforica di queste poesie, che pulsano di metafore e di analogie, ha qualcosa in comune con il tripudio fastoso e malinconico delle descrizioni lirico-narrative di un grande “poeta in prosa”, il polacco Bruno Schulz, scrittore molto amato da Marotta e autore di due libri decisivi per la letteratura contemporanea, Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna della clessidra. Con Schulz Marotta condivide la necessità di trasfigurare il reale lineare in un rigoglio tropicale e allucinato di immagini che, però, nel suo lato d’ombra, rivela una foresta vuota e spoglia di tronchi, una radura abbacinante e gelata. Un “chiarore incurabile” allaga questi versi, nel desiderio quasi impossibile “di avere ancora suoni / per l’orecchio murato dei morti”.

7

Una allucinata somiglianza lega tutte le poesie del libro, che sembrano vivere una dentro l’altra, intrecciarsi e districarsi come un “registro di fragili danze”, come voci “nella traccia di vento / del nostro svanire all’approdo”. Sembra che le poesie si rincorrano e si ricombinino in “fuochi di caduta”, in una “incurabile misura del guardare”, all’interno di un dolore che non trova sollievo: “alle tue spalle immagina / con quale lingua il deserto / racconta la piaga dove premeva / la lama della luce il varco / dove precipita il respiro”.

Ma una speranza resta: “basta un’eco una reliquia di voce / affiorata all’insaputa delle labbra / e il confine è la tua mano”. La speranza è sempre, con violenza, “la pupilla / esplosa di un fiore”. Lo sguardo origina dalla cecità, ogni volo è ancora possibile all’interno di “spenti equinozi” e “cere bruciate”. Il poeta vive e canta: “intera la superficie di una fiamma / per chi ancora respira della luce / deposta solo l’ora che imbianca / in mezzo al guado la sua ombra / che parla con lingua di sete / da un labirinto di acque mutate”. Non si sottrae al suo compito inesauribile: “da una crepa del vivere / apre le porte alla lingua”.

8

Il libro, aperto dalla sezione Imago, traversato dalla sezione Speculum, si chiude con Vulnus – simbolicamente la ferita resta sempre aperta. E la parola di Marotta non smette di enumerare se stessa “in sghembi / movimenti di pagine arabeschi / d’inchiostro”. Resta “il sigillo infranto di un nido”, ma l’occhio distingue il nido, il sigillo, la ferita. È sempre testimone di ciò che accade e accadrà, nonostante il buio: “le impronte degli occhi solo il ritmo / fraterno delle cose pensate / in piena luce materia vivente / visibile appena il tempo di passare”. Questa poesia vertiginosa, che canta e ricanta l’imminenza del suo sgretolarsi, dice ancora: “macerie in bilico e nello scollo della frana / tutto il candore / dei germogli agghiacciati / in passaggi di stagioni”. E quindi afferma la sua “materia d‘esilio all’azzurro, il suo “dovere d’esilio”. La ferita dell’io nel mondo ripete se stessa cercando impossibili guarigioni, restando sempre ferita aperta e feconda: “più spesso il corpo di una parola / porosa che esplode / sanguinante nella mano”. I resti dell’esplosione nella mano viva sono, disseccati in pagine, i versi ipnotici di questo libro.

9

Ancora una volta Marotta ci dona un libro potente, intimo e inattuale, che rifiuta ogni etichetta di neo e post-avanguardia, dove il surrealismo dell’immagine è l’ardente rappresentazione di un realismo interiore, privato, e lo stile ha sempre una dizione solenne, innodica. Un poeta come Nanni Cagnone, che si affida ancora di più alla scabrezza petrosa delle immagini, potrebbe essergli compagno in questo arduo itinerario di conoscenza. E allora, proprio per rendere omaggio a Francesco e alla sua generosità di poeta, concluderò questo breve saggio non con una scelta di versi suoi ma con la scelta di versi “affini” di Nanni, tratti dal suo ultimo libro, Le cose innegabili: “Solo a un adolescente / son necessari i poeti, / cari autori di vertigini. / Nella penombra che piú tardi, / se ne conosce l’inconsistenza, / quel geloso balbettío forse involontario, / esasperato lamento / o fieramente grido — / avida povertà delle parole. // Io | era | naufragio”. «Io era naufragio» è l’epigrafe non scritta di Esilio di voce.

***

guarisci il dubbio trafitto

dall’ansia di essere riparo malattia

a cadenze autunnali guarda gli sterpi

che ti battono un’altra luce

sui fianchi e nell’ombra che sale

gioca il sogno di un confine

sospeso la tua pelle si stacca aggiunge

ore ai tuoi segni al graffio che resta

dove togli parole

ai tuoi occhi

*

fossero simili a foglie

che si combinano in fuochi

di caduta le vigili inudibili parole

cresciute tra labbra e desiderio

oppure grida che colmano

tutta la distanza di un ricordo

e poi acqua che fascia il viso

dei morti quando fa buio

anche la pelle e l’occhio

soffoca di essere visione

solo una maglia slabbrata

uno squarcio nella rete del tempo

incurabile misura del guardare

*

di notte ti protegge il ricordo

di una casa in piena luce il labbro

stretto in un suo silenzio e il corpo

che quasi cede su un fianco

senza impurità senza più sogni

ma sono attimi che ti riguardano

come l’acqua un sasso

immobile nel suo deserto

azzurro privo di varchi

come la voce fulminata in gola

la misura esatta del respiro

ora che l’attesa pare una specie

di vento la curva che gli occhi fanno

nel dolore

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