Premio ULTERIORA MIRARI – Mosaici – Fragmenta

14,00

Premio ULTERIORA MIRARI – Mosaici
Pagine: 115
ISBN: 978 88 6300 078 8
Edizione: settembre 2012
Euro: 14,00
Formato: 15×21 cm
Rilegatura: brossura fresata

Esaurito

Premio ULTERIORA MIRARI – Mosaici

Fragmenta vol. 2

Antologia di prosa e poesia con autori vincitori e selezionati delle sezioni: Mosaici, Letteratura in fasce, Monografie

Hanno partecipato: Silvia Rosa, Giuseppe Barreca, Antonio Maggio, Pietro Pisano, Alessia D’Errigo, Maura Potì, Daniela Montella, Luigi Bonaro, Maurizio Manzo, Claudia Melegari, Chiara Baldini, Ulisse Fiolo, Anna Mosca, Carla Bariffi, Lella De Marchi, Narda Fattori


Il volume

Silvia Rosa
Mi Buenos Aires querido

Baciamoci come da piccoli, di baci imperfetti
inventiamo una storia che non sappia
di streghe di orchi di addii e di inutili attese
Facciamo un bambino – di carta

che abbia le mani dei tuoi versi leggeri

e le mie labbra imbronciate all’ingiù

appese alle ombre di qualche pensiero

Facciamo mattino, mi Buenos Aires querido

la madrugada un’alba increspata di gioia

mentre mi spoglio delle parole più cupe

sotto il cielo cobalto dei tuoi occhi

(sono un puntino di luce impazzito

fosforescente e tu stringimi ancora, forte)

Calle Corrientes la luna affilata

è una lingua tenera che si muove

fra le cosce spalancate dell’universo

Facciamo all’amore come una festa

di sguardi monelli che si rincorrono miele

e carezze negli angoli tiepidi della notte

Giochiamo a nasconderci per riscoprire

un poco spauriti, dietro a un sorriso

d’inchiostro e di nuvole [l’Argentina e l’Oceano]

i nostri nomi – d i m e n t i c h i a m o c i

in una promessa, mi Buenos Aires querido…

Giuseppe Barreca
Tempo pietrificato

Tempo pietrificato, tempo che non scorre,

tempo che vive di momenti che sono statue

e di silenzi impenetrabili.

Le stagioni e le ore i giorni,

appaiono come smorfie sofferenti

e segnano sui volti delle persone

le loro eterne leggi.

Sarà, alla fine di tutto, la salvezza

in un angolo ignoro di un bosco,

in una cantina cittadini senza finestre,

sarà, alla fine, la salvezza, lì?

Mistero di pietra e mistero infinito,

come l’usato interrogarsi su sé e gli altri,

su Dio e Satana, su me e te, sul pranzo

e la cena. Sul niente.

E le fogli che cadono si rialzeranno,

e i pensieri pensati torneranno, solo…

mascherati da novità, ma imbelli

modalità saranno per esistere

in quant’aria di vetro montaliana.

Cosa c’è alla fine di ogni cosa?

Un’altra cosa, altre cose, altre domande

che seguiranno le domande mute del nostro esistere,

in un’infinita catena di interrogativi

e noiose risposte date sbadigliando.

Sorprendersi è sempre più difficile

ed è volgare, a volte, il modo che usiamo

per lasciare senza fiato qualcuno

che non s’ama più.

Poi anche le parole si accartocceranno,

e lo sguardo tornerà carico d’ansia

butteremo acqua fredda

per ravvivare i visi sfatti negli specchi serali.

Antonio Maggio
Arcana non fu la luce

I

Come per storie dettate a bocche cosparse di miele

dubito ancora una volta del tempo che ho perso vicino

ad impalpabili forme cercandoti in pianti sommessi

o nella carne impazzita che freme in ardore di seni.

Sei tu che accogli il sorriso negato alle vecchie menzogne

ma non conosci il mio sguardo, silenzio di ciglia vietate

alle ragioni sottili di tutto l’amore che tace

forse m’inganni di nuovo o menti soltanto a te stessa

e sfogli i veli nel buio da maschere d’inconsistenza

rese sottili dall’aria dell’umido stanco sospiro

che si è dissolto stanotte su dita intrecciate in un arco.

II

Questo silenzio non passa tra porte serrate al tuo viso

rubando accenni di te, ma copre ogni velo intessuto

in trame ardite per colpa di liquide malinconie

ora in attesa ci sono speranze in immagini informi

tu che ti muovi inclinando la testa a un sensuale motivo

l’incomprensione di credere a ciò che è più bello per tutti

se non spaventa la sagoma e cresce sbocciato dal nulla

l’uomo che parla alla donna ma al quale non doni fiducia.

Si perde in tasti indecisi la voce che hai già digitato

ma troppe volte imbrigliata in statiche circonferenze

e sembra alzarsi lontana, negare ogni luogo e ogni cosa

dire al sorriso del giorno che gocciola nuova incertezza.

III

E ti accontenti di schiudere ancora le gambe all’ignoto

tra le coperte bagnate di lacrime e fatua lussuria

di qualche intesa passata (la prima tu l’hai raccontata

con le mie mani sul grembo, le dita premute sul sesso

che s’infiorava fluttuando a tenere labbra di rosa)

non ti distoglie dal libro che leggi il mio fiato che muore

parlando a lettere strette su fili dorati lì dove

i desideri riposano in invaginati deserti.

Resto soltanto a guardarti, profilo che sfiora l’idea

e non conosce più il nome fuggendo in spirali contorte

chiedo alla voglia di te di sciogliersi in manchevolezza.

IV

“Non potevamo conoscerci al tempo trascorso nei fogli

gialli e sbiaditi che tu conservi in un vecchio cassetto?”

Forse non sai quale voce rallenta il suo corso e riscalda

lo stesso senza aspettare lo sguardo che plasma il colore.

Non sei serena e ti sento nel fantasticare la sorte

con la speranza agitata di chiedersi ciò che non sei

vuoi simulare illudendo lo spettro di sogni stentati

per la paura che accende la macchina infelicitante.

Lascia morire la pietra, se temi sconvolgere il giorno

quello di raggi conosce la ruga di questa tempesta

e ama giocare con te nel fiato che ancora gli chiedi.

V

Resta un sacrario di corpi che lasciano gli umidi odori

in questa vita di fragili accordi alla corda stonata

che tendi a volte col palmo, parlando al mio cuore pesante

di leggerezza nel viso dall’insostenibile forma.

Leggero, troppo leggero il battito attento dell’orma

disegna aneliti e vaghe le tue fantasie mi dischiude

come se fossero carta velina di un libro di fiabe

e non ti biasimo certo se mostri le spalle alla pioggia

mentre la goccia le labbra raggiunge e le fa sospirare

senza che tu te ne accorga per essere solo qualcuno

che nell’oscuro germoglia nel seme che vuole la terra.

Pietro Pisano
Appunti per desistere dall’essere IO

Basterà rimanere vuoti,

prorogare lo stadio prefinale,

aderire alla superficie degli eventi

senza parteggiare per un centro

che dica IO,

prolungare la caduta delle ore

sui gesti quotidiani:

aprire porte, finestre, armadietti,

aprire gli occhi per un singolare taglio della luce

che ordini la scena per un dettaglio manifesto

nei contorni delle cose,

aprire i vestiti, gettarli via per terra

attraversare le stanze a piedi nudi, ascoltando

le pareti del corpo

la pelle che respira

e nel limite ritrovarsi, il freddo, il bianco,

la punteggiatura,

la sintesi.

Alessia D’Errigo
kamikaze

davanti al tabernacolo dei ricordi

ho scelto gli arcani pensieri del sogno

un reale e regale avvoltolato

di groviglio

simile a mosche bianche

tra sciami di pensieri

ho scelto una sillaba

che risuona senza memoria

tra le tempie e il cuore

stupefatta d’immagini carnali

e sospiri sopiti dal tempo

un linguaggio arcaico

ordito dell’essere

suono unico

che emerge dal fondo

presupponendo vita alla vita

incarnata foce cristallina

pianto del pianto

genuina speranza

sparsa e acquattata

dentro a scrigni rumorosi

coperti di cenere e mosto

liberati da ogni santità

ritrovati e spersi

tra le braghe degli occhi

in slanci carichi d’altrove

cascate silenti di sguardi

riposti tra gli scaffali della luna

impoveriti di tenebre

e sguardi cadenti

che si fanno ascoltare

nello stesso modo in cui

le sirene cantano

ammaliando e distruggendo

un mutilato vertice di idee

sovrapposte a palazzi rutilanti

e grattacieli armati di rovina

un kamikaze impazzito

di sentire e sapere

che assapora le labbra

nel fermento dei sensi

tornati a toccare

tastare

scuotere le vertebre

rassodare il cuore

palpeggiare l’anima carnale

ridotta a frastuono emotivo

clacson esistenziale

schivo e malinconico

dell’essere soli tra i soli

e nel sperare che riaffiori

ancora

il soffio ancestrale

l’arcano movimento del vento

in oscillazioni orgiastiche di follia

baccanale di vita

vino incestuoso di suoni

finalmente

a scavare ancora

tra il piacere e l’oblio

Maura Potì
Il valore del suono

Separate

le ciocche appaiono confuse

nell’opacità di una nuova calvizie

smarrite.

E non basta l’attimo di compiacenza

di un raro sole di mezzanotte

a dare visibilità ai contorni

e luce al buio dell’assenza.

Piuttosto

è il suono potente di un corno

– il barrito di un elefante in fuga –

a districare i nodi tra i capelli

a svelare la verità di ognuna.

Così resta l’anima mia

– sospesa tra i fili sottili della tua –

se mi accarezzi con indulgenza

senza chiedermi di andar via.

A rompere il silenzio con un urlo

– a soffiar forte sulla mia pelle –

ci sono ancora io

e la fuliggine diventerà neve

e sarà inverno

ma durerà una sola stagione.

Daniela Montella
Inferno

Sono qui, dove tutto è buio. Dove la nebbia è nera e il vento è un unico grido di polvere da sparo. Dove le montagne sono denti insanguinati e le ossa fischiano nella tempesta. Dove i vetri nascono rotti e i muri nascono marci. Dove i rovi stringono i polsi e le grida spariscono. Dove le lacrime si versano asciutte e dove nessuno ti può vedere.

Qui i sussurri sembrano grida e le grida le porta via la pioggia, e la pioggia si mischia al sangue, e il sangue va sempre via troppo presto. Dove resistono solo i rimpianti e la vita è sparita. Non abbiamo pensieri e non esistono parole. Abbiamo una voce che parla per noi. Una voce meccanica a cui poter dare la colpa. Un’intonazione metallica che taglia l’aria e le ossa peggio del vento di vetro. Qualcosa che dice: imperativo cancellare ogni ricordo. Che dice: siete un inno al massacro. Andiamo giù per strada a tagliare gole. Quello che era ieri adesso non esiste.

Ricordo ancora come sono arrivata: avevo delle cicatrici appena nate, cicatrici-bambine, che piangevano lungo i miei polsi. Avevano per madre una lama e le lacrime fredde. Lui mi ha chiesto quando è successo, ma non gli ho risposto. Le guardavo, le mie cicatrici. Nuove sulle vecchie. Qui, dove tutto è sepolto, risplendono ancora. I miei polsi sono solo vene. I miei polsi ricordano: ma non mi piace parlare della mia morte. C’era quella sensazione che mi accompagnava quando ancora respiravo. Di sbagliato. Come se il corpo fosse un vestito troppo pesante da togliere. C’era la timidezza che era una malattia e la bruttezza che era un capriccio dei ricchi. E io che volevo diventare ancora più brutta. C’erano delle persone che mi parlavano, che mi chiedevanochi, perché, cosa, perché lo facessi, perché volevo scappare. Scappare. Io mi stavo salvando. Non l’hanno mai capito. Che patetico e tragico spreco di battiti. Chiamavano il mio nome ma non rispondevo: non volevo guardarli, non volevo sentire le loro voci. […]

Luigi Bonaro
L’esecuzione

Lo aveva ucciso così, senza esitare, esercitando il suo libero arbitrio alla stregua di una divinità pagana che per capriccio vuole soddisfare il suo desiderio. Un colpo secco di mannaia al collo fu quanto dovuto per toglierli la vita. Un colpo solo.

«Nulla di personale » argomentò Abdone quel giorno. Lo aveva inseguito per tutta la campagna mentre il sole finiva tra le alte spighe gialle piegate dal vento. Abdone Nardin, il suo grosso ventre che danzava scomposto sotto la canottiera e il peso della mannaia, correva goffo in quel mare giallo, lasciando una scia dorata.

I pennacchi delle spighe si appiccicavano al suo viso rubicondo, imperlato di sudore. La sua vittima correva disperata verso il crepuscolo in preda all’oscura avvisaglia di una fine imminente.

Si girava, il meschino, per scorgere quel volto mostruoso, sfigurato dall’affanno e dalla rabbia e quella mano robusta che lo inseguiva fendendo il vuoto con la lama a riflettere le ultime luci del giorno.

E fu così che correndo lo sventurato cadde in una buca. Abdone fu subito su di lui, afferrandolo mentre ancora si dimenava. La sua grossa mano si chiuse intorno al collo per condurlo sul luogo dell’esecuzione.

Nell’aia c’era Alice Nardin. Le mani nel grembiule, guardava fiera la sagoma del marito e della sua vittima, delineati dal chiarore della sera. Abdone fissò il ceppo e con mano ferma vi posizionò il collo della vittima, per farvi scendere la mannaia. […]

Maurizio Manzo
Il mutamento

Quasi sicuramente al mattino non avrò più niente. Da qualche notte me lo ripeto. Il respiro non avverte nessun affanno. Provo a tapparmi le orecchie e mi accorgo del silenzio. È veramente notte. Ora che ci penso, è stato di notte. Ogni tremendo passaggio avviene la notte. Ma non è di questa notte che devo aver timore. Tutto è già avvenuto. Mi terrorizza il dopo e il prima degli altri. L’altra mattina vedevo mia madre parlare con il medico. Mio padre appoggiarsi allo stipite della porta che separa l’andito dell’ingresso dal soggiorno. Il volume della tv imperversare sulle loro facce.

Mi chiamo Nolego Gi e ho 25 anni. Il primo sintomo è stato un non sintomo. Questo è il terrore. La mia voce la sento uguale a tutte le volte che nella mia breve vita ho parlato. Il mio olfatto è canino. Ogni cosa che guardo la vedo prima ancora di toccarla. Il mio aspetto ho deciso dal risveglio di ieri mattina di non specchiarlo più. Evito persino di guardarmi gli arti superiori e di far sfilare i miei occhi sul resto del corpo. Questo non perché abbia notato qualcosa di diverso sul mio corpo, ma perché temo di trovarlo. Perché tra la notte e l’alba di questi giorni passati è successo qualcosa alla mia persona. Qualcosa che nessuno sembra volermi riferire. E questo mi terrorizza ancor più della cosa in se stessa. […]

Claudia Melegari
L’occhio di Ra.

Avrebbero preso mio fratello. Loro.

Lo avrebbero costretto. Loro.

Impedito la volontà sua. Loro.

Avrebbero utilizzato le regole prospettiche egiziane. Loro.

Loro chi?

Loro, non capisci?

Loro… mio fratello è perfetto.

Quale tuo fratello?

L’ingegnere, papà mi stai prendendo per il culo?

Non riesco a capire.

Tu rimani nella tua casa sicura, a progettare brevetti. Mentre l’occhio di Ra sta definendo i piani.

Tutto questo è assurdo.

Vanno avvisati. Loro.

Hanno già deciso. Loro.

Stanno sbagliando le regole, io lo so, lo so perché ho pensato tutta notte, credo che potrebbero sbagliare.

Credo tu abbia bisogno di aiuto, risponde mio padre. Padre dobbiamo aiutare mio fratello non me. Tutto si è reso più chiaro stanotte. Non sono riuscito a capire perché non ho chiuso occhio, poi ho compreso. La macchina nuova, la nuova casa. Tutti quei soldi e la cintura.

Quale cintura?

Non mette più cinture, dice che stringono troppo.

Chiara Baldini
La scala

Con le movenze pie

e fame d’affetti materici

stancamente dismessi in un tetto l’anima-Mosè

ascende già

dal passato remoto al Sinai legnoso

di polvere e penombra.

Intona un cigolio

pesando a ogni piede

marcato a fuoco: tavole incise

di comandamenti tarlati.

La terra promessa

in pochi passi.

Ulisse Fiolo
Che vita xéa, se a nasse in te’ e scoasse?

A Storia caga scarti de memoria

che no vien rancurài su da nissun:

el leamaro de e pì “gloriose imprese”

xe a cuna indove che i poaréti stenta;

se i ghe dise malnati, ghe n’ài colpa

ióri, che pò i vien su anca mal cressùi?

Ciamèi co ‘l nome giusto: fati nàssar

maeamente, e cressùi peso che peso!

Questa xe a verità – che tuti sa,

a verità che tuti quanti tase:

e mi ghe dago a me pur fiaca vose,

finché a paròea no a farà far calcossa –

finché e paròe no e cambiarà e robe!

[Che vita è mai, se nasce nel pattume? \\ La Storia espelle scarti di memoria \ che non sono raccolti da nessuno: \ la cloaca delle “gloriose imprese” \ è la culla in cui i poveri stentano; \ li dicono malnati, ma ne han colpa \ loro, che poi son pure mal cresciuti? \ Dategli il giusto nome: fatti nascere \ malamente, e cresciuti pure peggio! \ Questa è la verità che tutti sanno, \ la verità che tutti quanti tacciono: \ io le presto la mia pur fioca voce, \ finché il dire non smuoverà le cose – \ e le parole cambieranno il mondo! ]

Anna Mosca
(da Sottrazioni)

Milano è sazia d’anelli

ne ha le mani piene

più di quanti ne convenga

-altre hanno solo reticoli.

Concentrici ne segnano l’età

il centro storico, il parco celtico

solo raccontato nel cuore,

l’anello ricco, la banda è più larga

fila un po’ più liscio di porta in porta.

Anche l’altro più moderno e largo

quasi anatema, ma come hai fatto

a crescere con tali brutture intorno

la filovia che non si ferma mai

ingoia e vomita bulimia urbana

qui ti si percorre con meno attenzione

velocemente, quasi non conti, non ti si ascolta

ti si fugge. Gli spazi organizzati circolarmente

dilagano, sbordano alle tangenziali

dove ti si prende in giro

a velocità non consentite,

la tua corteccia continua

ad inspessirsi.

Fatta a lamelle, falda su falda,

linguaggio su linguaggio

non si rammenta il cuore

un po’ più scuro un po’ più caldo.

Milano si ritira come l’acqua dei Navigli

come i milanesi raggrinziti

mescolati nel risotto

dei menù per turisti.

Carla Bariffi
(da La forma dei nodi)

La sofferenza

ha un suo volto preciso

un tocco sensibile al nervo.

La luce respinge ogni ombra,

fa sua la presenza

obliqua del raggio che porta.

*

Vorticoso movimento

mescolanza d’origine

la forma che s’insinua,

l’idea che si rapprende

– Dasein –

dalla quale si diramano i raggi

della prima conoscenza.

*

È un’arma spietata

il silenzio.

Nel silenzio ogni dèmone compare

confonde i nodi.

*

Il guizzo del bicipite

lucido disteso abbraccia le ginocchia

lo sguardo sta dietro

la pelle,

la nuca che mostra il profilo

cartilagine perfetta dentro il cerchio.

Percorrere la forma,

percorrerti la linfa

– nudità dimora in arte –

[…]

Lella De Marchi
(da Stato di continua amnesia)
la fuga

senza scampo e senza redenzione pare

questa fuga incerta e necessaria come l’aria

tra le cose che non vuoi, che non ti è dato

di toccare, che comunque fanno

muro, pretendono di non passare

inosservate, d’essere riconosciute, resistono

ostinate come i cippi in pietra lungo le strade

larghe americane, questa lotta incerta

e necessaria come l’aria del fuggire

per potersi ritrovare, del cercarsi

per potersi abbandonare, se io sono

sempre quella che tu puoi toccare, che puoi

stringere una volta ancora sul tuo seno, far

morire tra le braccia, per un attimo

che sembra eterno. poi far tornare come

prima, incerta e necessaria, in mezzo

all’aria, come le cose che non vuoi,

che non ti è dato di toccare

[…]

Narda Fattori
Affondo

Ho da stendere piani rovesciati

consulte deserte arie rapprese

memorie slabbrate

avemmo un canto un furore

roseto d’autunno

di spini che ebbero rose.

Nessuno riuscì a farci tacere

e da spalti o più comuni scranni

e incontri e quotidiane mene

gridammo gli inganni

le sorti tradite i morti amati

e tre volte riamati.

Mia Cassandra

con dita grondanti inascoltate sventure

portasti un serto d’infamia nel tempo

ma io ti canto – sorella di piétas inerme-

che le ombre degli antri

stilettano ventri

che la scritta sul muro è un gioco

che conduce al massacro

e la palla rotonda del mondo

rotola sempre più a fondo

nel male corrotto di psiche e di terra

                             sfrenata e profonda.

Torna in alto