Premio ULTERIORA MIRARI – Mosaici
Fragmenta vol. 2
Antologia di prosa e poesia con autori vincitori e selezionati delle sezioni: Mosaici, Letteratura in fasce, Monografie
Hanno partecipato: Silvia Rosa, Giuseppe Barreca, Antonio Maggio, Pietro Pisano, Alessia D’Errigo, Maura Potì, Daniela Montella, Luigi Bonaro, Maurizio Manzo, Claudia Melegari, Chiara Baldini, Ulisse Fiolo, Anna Mosca, Carla Bariffi, Lella De Marchi, Narda Fattori
Il volume
Silvia Rosa
Mi Buenos Aires querido
Baciamoci come da piccoli, di baci imperfetti
inventiamo una storia che non sappia
di streghe di orchi di addii e di inutili attese
Facciamo un bambino – di carta
che abbia le mani dei tuoi versi leggeri
e le mie labbra imbronciate all’ingiù
appese alle ombre di qualche pensiero
Facciamo mattino, mi Buenos Aires querido
la madrugada un’alba increspata di gioia
mentre mi spoglio delle parole più cupe
sotto il cielo cobalto dei tuoi occhi
(sono un puntino di luce impazzito
fosforescente e tu stringimi ancora, forte)
Calle Corrientes la luna affilata
è una lingua tenera che si muove
fra le cosce spalancate dell’universo
Facciamo all’amore come una festa
di sguardi monelli che si rincorrono miele
e carezze negli angoli tiepidi della notte
Giochiamo a nasconderci per riscoprire
un poco spauriti, dietro a un sorriso
d’inchiostro e di nuvole [l’Argentina e l’Oceano]
i nostri nomi – d i m e n t i c h i a m o c i
in una promessa, mi Buenos Aires querido…
Giuseppe Barreca
Tempo pietrificato
Tempo pietrificato, tempo che non scorre,
tempo che vive di momenti che sono statue
e di silenzi impenetrabili.
Le stagioni e le ore i giorni,
appaiono come smorfie sofferenti
e segnano sui volti delle persone
le loro eterne leggi.
Sarà, alla fine di tutto, la salvezza
in un angolo ignoro di un bosco,
in una cantina cittadini senza finestre,
sarà, alla fine, la salvezza, lì?
Mistero di pietra e mistero infinito,
come l’usato interrogarsi su sé e gli altri,
su Dio e Satana, su me e te, sul pranzo
e la cena. Sul niente.
E le fogli che cadono si rialzeranno,
e i pensieri pensati torneranno, solo…
mascherati da novità, ma imbelli
modalità saranno per esistere
in quant’aria di vetro montaliana.
Cosa c’è alla fine di ogni cosa?
Un’altra cosa, altre cose, altre domande
che seguiranno le domande mute del nostro esistere,
in un’infinita catena di interrogativi
e noiose risposte date sbadigliando.
Sorprendersi è sempre più difficile
ed è volgare, a volte, il modo che usiamo
per lasciare senza fiato qualcuno
che non s’ama più.
Poi anche le parole si accartocceranno,
e lo sguardo tornerà carico d’ansia
butteremo acqua fredda
per ravvivare i visi sfatti negli specchi serali.
Antonio Maggio
Arcana non fu la luce
I
Come per storie dettate a bocche cosparse di miele
dubito ancora una volta del tempo che ho perso vicino
ad impalpabili forme cercandoti in pianti sommessi
o nella carne impazzita che freme in ardore di seni.
Sei tu che accogli il sorriso negato alle vecchie menzogne
ma non conosci il mio sguardo, silenzio di ciglia vietate
alle ragioni sottili di tutto l’amore che tace
forse m’inganni di nuovo o menti soltanto a te stessa
e sfogli i veli nel buio da maschere d’inconsistenza
rese sottili dall’aria dell’umido stanco sospiro
che si è dissolto stanotte su dita intrecciate in un arco.
II
Questo silenzio non passa tra porte serrate al tuo viso
rubando accenni di te, ma copre ogni velo intessuto
in trame ardite per colpa di liquide malinconie
ora in attesa ci sono speranze in immagini informi
tu che ti muovi inclinando la testa a un sensuale motivo
l’incomprensione di credere a ciò che è più bello per tutti
se non spaventa la sagoma e cresce sbocciato dal nulla
l’uomo che parla alla donna ma al quale non doni fiducia.
Si perde in tasti indecisi la voce che hai già digitato
ma troppe volte imbrigliata in statiche circonferenze
e sembra alzarsi lontana, negare ogni luogo e ogni cosa
dire al sorriso del giorno che gocciola nuova incertezza.
III
E ti accontenti di schiudere ancora le gambe all’ignoto
tra le coperte bagnate di lacrime e fatua lussuria
di qualche intesa passata (la prima tu l’hai raccontata
con le mie mani sul grembo, le dita premute sul sesso
che s’infiorava fluttuando a tenere labbra di rosa)
non ti distoglie dal libro che leggi il mio fiato che muore
parlando a lettere strette su fili dorati lì dove
i desideri riposano in invaginati deserti.
Resto soltanto a guardarti, profilo che sfiora l’idea
e non conosce più il nome fuggendo in spirali contorte
chiedo alla voglia di te di sciogliersi in manchevolezza.
IV
“Non potevamo conoscerci al tempo trascorso nei fogli
gialli e sbiaditi che tu conservi in un vecchio cassetto?”
Forse non sai quale voce rallenta il suo corso e riscalda
lo stesso senza aspettare lo sguardo che plasma il colore.
Non sei serena e ti sento nel fantasticare la sorte
con la speranza agitata di chiedersi ciò che non sei
vuoi simulare illudendo lo spettro di sogni stentati
per la paura che accende la macchina infelicitante.
Lascia morire la pietra, se temi sconvolgere il giorno
quello di raggi conosce la ruga di questa tempesta
e ama giocare con te nel fiato che ancora gli chiedi.
V
Resta un sacrario di corpi che lasciano gli umidi odori
in questa vita di fragili accordi alla corda stonata
che tendi a volte col palmo, parlando al mio cuore pesante
di leggerezza nel viso dall’insostenibile forma.
Leggero, troppo leggero il battito attento dell’orma
disegna aneliti e vaghe le tue fantasie mi dischiude
come se fossero carta velina di un libro di fiabe
e non ti biasimo certo se mostri le spalle alla pioggia
mentre la goccia le labbra raggiunge e le fa sospirare
senza che tu te ne accorga per essere solo qualcuno
che nell’oscuro germoglia nel seme che vuole la terra.
Pietro Pisano
Appunti per desistere dall’essere IO
Basterà rimanere vuoti,
prorogare lo stadio prefinale,
aderire alla superficie degli eventi
senza parteggiare per un centro
che dica IO,
prolungare la caduta delle ore
sui gesti quotidiani:
aprire porte, finestre, armadietti,
aprire gli occhi per un singolare taglio della luce
che ordini la scena per un dettaglio manifesto
nei contorni delle cose,
aprire i vestiti, gettarli via per terra
attraversare le stanze a piedi nudi, ascoltando
le pareti del corpo
la pelle che respira
e nel limite ritrovarsi, il freddo, il bianco,
la punteggiatura,
la sintesi.
Alessia D’Errigo
kamikaze
davanti al tabernacolo dei ricordi
ho scelto gli arcani pensieri del sogno
un reale e regale avvoltolato
di groviglio
simile a mosche bianche
tra sciami di pensieri
ho scelto una sillaba
che risuona senza memoria
tra le tempie e il cuore
stupefatta d’immagini carnali
e sospiri sopiti dal tempo
un linguaggio arcaico
ordito dell’essere
suono unico
che emerge dal fondo
presupponendo vita alla vita
incarnata foce cristallina
pianto del pianto
genuina speranza
sparsa e acquattata
dentro a scrigni rumorosi
coperti di cenere e mosto
liberati da ogni santità
ritrovati e spersi
tra le braghe degli occhi
in slanci carichi d’altrove
cascate silenti di sguardi
riposti tra gli scaffali della luna
impoveriti di tenebre
e sguardi cadenti
che si fanno ascoltare
nello stesso modo in cui
le sirene cantano
ammaliando e distruggendo
un mutilato vertice di idee
sovrapposte a palazzi rutilanti
e grattacieli armati di rovina
un kamikaze impazzito
di sentire e sapere
che assapora le labbra
nel fermento dei sensi
tornati a toccare
tastare
scuotere le vertebre
rassodare il cuore
palpeggiare l’anima carnale
ridotta a frastuono emotivo
clacson esistenziale
schivo e malinconico
dell’essere soli tra i soli
e nel sperare che riaffiori
ancora
il soffio ancestrale
l’arcano movimento del vento
in oscillazioni orgiastiche di follia
baccanale di vita
vino incestuoso di suoni
finalmente
a scavare ancora
tra il piacere e l’oblio
Maura Potì
Il valore del suono
Separate
le ciocche appaiono confuse
nell’opacità di una nuova calvizie
smarrite.
E non basta l’attimo di compiacenza
di un raro sole di mezzanotte
a dare visibilità ai contorni
e luce al buio dell’assenza.
Piuttosto
è il suono potente di un corno
– il barrito di un elefante in fuga –
a districare i nodi tra i capelli
a svelare la verità di ognuna.
Così resta l’anima mia
– sospesa tra i fili sottili della tua –
se mi accarezzi con indulgenza
senza chiedermi di andar via.
A rompere il silenzio con un urlo
– a soffiar forte sulla mia pelle –
ci sono ancora io
e la fuliggine diventerà neve
e sarà inverno
ma durerà una sola stagione.
Daniela Montella
Inferno
Sono qui, dove tutto è buio. Dove la nebbia è nera e il vento è un unico grido di polvere da sparo. Dove le montagne sono denti insanguinati e le ossa fischiano nella tempesta. Dove i vetri nascono rotti e i muri nascono marci. Dove i rovi stringono i polsi e le grida spariscono. Dove le lacrime si versano asciutte e dove nessuno ti può vedere.
Qui i sussurri sembrano grida e le grida le porta via la pioggia, e la pioggia si mischia al sangue, e il sangue va sempre via troppo presto. Dove resistono solo i rimpianti e la vita è sparita. Non abbiamo pensieri e non esistono parole. Abbiamo una voce che parla per noi. Una voce meccanica a cui poter dare la colpa. Un’intonazione metallica che taglia l’aria e le ossa peggio del vento di vetro. Qualcosa che dice: imperativo cancellare ogni ricordo. Che dice: siete un inno al massacro. Andiamo giù per strada a tagliare gole. Quello che era ieri adesso non esiste.
Ricordo ancora come sono arrivata: avevo delle cicatrici appena nate, cicatrici-bambine, che piangevano lungo i miei polsi. Avevano per madre una lama e le lacrime fredde. Lui mi ha chiesto quando è successo, ma non gli ho risposto. Le guardavo, le mie cicatrici. Nuove sulle vecchie. Qui, dove tutto è sepolto, risplendono ancora. I miei polsi sono solo vene. I miei polsi ricordano: ma non mi piace parlare della mia morte. C’era quella sensazione che mi accompagnava quando ancora respiravo. Di sbagliato. Come se il corpo fosse un vestito troppo pesante da togliere. C’era la timidezza che era una malattia e la bruttezza che era un capriccio dei ricchi. E io che volevo diventare ancora più brutta. C’erano delle persone che mi parlavano, che mi chiedevanochi, perché, cosa, perché lo facessi, perché volevo scappare. Scappare. Io mi stavo salvando. Non l’hanno mai capito. Che patetico e tragico spreco di battiti. Chiamavano il mio nome ma non rispondevo: non volevo guardarli, non volevo sentire le loro voci. […]
Luigi Bonaro
L’esecuzione
Lo aveva ucciso così, senza esitare, esercitando il suo libero arbitrio alla stregua di una divinità pagana che per capriccio vuole soddisfare il suo desiderio. Un colpo secco di mannaia al collo fu quanto dovuto per toglierli la vita. Un colpo solo.
«Nulla di personale » argomentò Abdone quel giorno. Lo aveva inseguito per tutta la campagna mentre il sole finiva tra le alte spighe gialle piegate dal vento. Abdone Nardin, il suo grosso ventre che danzava scomposto sotto la canottiera e il peso della mannaia, correva goffo in quel mare giallo, lasciando una scia dorata.
I pennacchi delle spighe si appiccicavano al suo viso rubicondo, imperlato di sudore. La sua vittima correva disperata verso il crepuscolo in preda all’oscura avvisaglia di una fine imminente.
Si girava, il meschino, per scorgere quel volto mostruoso, sfigurato dall’affanno e dalla rabbia e quella mano robusta che lo inseguiva fendendo il vuoto con la lama a riflettere le ultime luci del giorno.
E fu così che correndo lo sventurato cadde in una buca. Abdone fu subito su di lui, afferrandolo mentre ancora si dimenava. La sua grossa mano si chiuse intorno al collo per condurlo sul luogo dell’esecuzione.
Nell’aia c’era Alice Nardin. Le mani nel grembiule, guardava fiera la sagoma del marito e della sua vittima, delineati dal chiarore della sera. Abdone fissò il ceppo e con mano ferma vi posizionò il collo della vittima, per farvi scendere la mannaia. […]
Maurizio Manzo
Il mutamento
Quasi sicuramente al mattino non avrò più niente. Da qualche notte me lo ripeto. Il respiro non avverte nessun affanno. Provo a tapparmi le orecchie e mi accorgo del silenzio. È veramente notte. Ora che ci penso, è stato di notte. Ogni tremendo passaggio avviene la notte. Ma non è di questa notte che devo aver timore. Tutto è già avvenuto. Mi terrorizza il dopo e il prima degli altri. L’altra mattina vedevo mia madre parlare con il medico. Mio padre appoggiarsi allo stipite della porta che separa l’andito dell’ingresso dal soggiorno. Il volume della tv imperversare sulle loro facce.
Mi chiamo Nolego Gi e ho 25 anni. Il primo sintomo è stato un non sintomo. Questo è il terrore. La mia voce la sento uguale a tutte le volte che nella mia breve vita ho parlato. Il mio olfatto è canino. Ogni cosa che guardo la vedo prima ancora di toccarla. Il mio aspetto ho deciso dal risveglio di ieri mattina di non specchiarlo più. Evito persino di guardarmi gli arti superiori e di far sfilare i miei occhi sul resto del corpo. Questo non perché abbia notato qualcosa di diverso sul mio corpo, ma perché temo di trovarlo. Perché tra la notte e l’alba di questi giorni passati è successo qualcosa alla mia persona. Qualcosa che nessuno sembra volermi riferire. E questo mi terrorizza ancor più della cosa in se stessa. […]
Claudia Melegari
L’occhio di Ra.
Avrebbero preso mio fratello. Loro.
Lo avrebbero costretto. Loro.
Impedito la volontà sua. Loro.
Avrebbero utilizzato le regole prospettiche egiziane. Loro.
Loro chi?
Loro, non capisci?
Loro… mio fratello è perfetto.
Quale tuo fratello?
L’ingegnere, papà mi stai prendendo per il culo?
Non riesco a capire.
Tu rimani nella tua casa sicura, a progettare brevetti. Mentre l’occhio di Ra sta definendo i piani.
Tutto questo è assurdo.
Vanno avvisati. Loro.
Hanno già deciso. Loro.
Stanno sbagliando le regole, io lo so, lo so perché ho pensato tutta notte, credo che potrebbero sbagliare.
Credo tu abbia bisogno di aiuto, risponde mio padre. Padre dobbiamo aiutare mio fratello non me. Tutto si è reso più chiaro stanotte. Non sono riuscito a capire perché non ho chiuso occhio, poi ho compreso. La macchina nuova, la nuova casa. Tutti quei soldi e la cintura.
Quale cintura?
Non mette più cinture, dice che stringono troppo.
Chiara Baldini
La scala
Con le movenze pie
e fame d’affetti materici
stancamente dismessi in un tetto l’anima-Mosè
ascende già
dal passato remoto al Sinai legnoso
di polvere e penombra.
Intona un cigolio
pesando a ogni piede
marcato a fuoco: tavole incise
di comandamenti tarlati.
La terra promessa
in pochi passi.
Ulisse Fiolo
Che vita xéa, se a nasse in te’ e scoasse?
A Storia caga scarti de memoria
che no vien rancurài su da nissun:
el leamaro de e pì “gloriose imprese”
xe a cuna indove che i poaréti stenta;
se i ghe dise malnati, ghe n’ài colpa
ióri, che pò i vien su anca mal cressùi?
Ciamèi co ‘l nome giusto: fati nàssar
maeamente, e cressùi peso che peso!
Questa xe a verità – che tuti sa,
a verità che tuti quanti tase:
e mi ghe dago a me pur fiaca vose,
finché a paròea no a farà far calcossa –
finché e paròe no e cambiarà e robe!
[Che vita è mai, se nasce nel pattume? \\ La Storia espelle scarti di memoria \ che non sono raccolti da nessuno: \ la cloaca delle “gloriose imprese” \ è la culla in cui i poveri stentano; \ li dicono malnati, ma ne han colpa \ loro, che poi son pure mal cresciuti? \ Dategli il giusto nome: fatti nascere \ malamente, e cresciuti pure peggio! \ Questa è la verità che tutti sanno, \ la verità che tutti quanti tacciono: \ io le presto la mia pur fioca voce, \ finché il dire non smuoverà le cose – \ e le parole cambieranno il mondo! ]
Anna Mosca
(da Sottrazioni)
Milano è sazia d’anelli
ne ha le mani piene
più di quanti ne convenga
-altre hanno solo reticoli.
Concentrici ne segnano l’età
il centro storico, il parco celtico
solo raccontato nel cuore,
l’anello ricco, la banda è più larga
fila un po’ più liscio di porta in porta.
Anche l’altro più moderno e largo
quasi anatema, ma come hai fatto
a crescere con tali brutture intorno
la filovia che non si ferma mai
ingoia e vomita bulimia urbana
qui ti si percorre con meno attenzione
velocemente, quasi non conti, non ti si ascolta
ti si fugge. Gli spazi organizzati circolarmente
dilagano, sbordano alle tangenziali
dove ti si prende in giro
a velocità non consentite,
la tua corteccia continua
ad inspessirsi.
Fatta a lamelle, falda su falda,
linguaggio su linguaggio
non si rammenta il cuore
un po’ più scuro un po’ più caldo.
Milano si ritira come l’acqua dei Navigli
come i milanesi raggrinziti
mescolati nel risotto
dei menù per turisti.
Carla Bariffi
(da La forma dei nodi)
La sofferenza
ha un suo volto preciso
un tocco sensibile al nervo.
La luce respinge ogni ombra,
fa sua la presenza
obliqua del raggio che porta.
*
Vorticoso movimento
mescolanza d’origine
la forma che s’insinua,
l’idea che si rapprende
– Dasein –
dalla quale si diramano i raggi
della prima conoscenza.
*
È un’arma spietata
il silenzio.
Nel silenzio ogni dèmone compare
confonde i nodi.
*
Il guizzo del bicipite
lucido disteso abbraccia le ginocchia
lo sguardo sta dietro
la pelle,
la nuca che mostra il profilo
cartilagine perfetta dentro il cerchio.
Percorrere la forma,
percorrerti la linfa
– nudità dimora in arte –
[…]
Lella De Marchi
(da Stato di continua amnesia)
la fuga
senza scampo e senza redenzione pare
questa fuga incerta e necessaria come l’aria
tra le cose che non vuoi, che non ti è dato
di toccare, che comunque fanno
muro, pretendono di non passare
inosservate, d’essere riconosciute, resistono
ostinate come i cippi in pietra lungo le strade
larghe americane, questa lotta incerta
e necessaria come l’aria del fuggire
per potersi ritrovare, del cercarsi
per potersi abbandonare, se io sono
sempre quella che tu puoi toccare, che puoi
stringere una volta ancora sul tuo seno, far
morire tra le braccia, per un attimo
che sembra eterno. poi far tornare come
prima, incerta e necessaria, in mezzo
all’aria, come le cose che non vuoi,
che non ti è dato di toccare
[…]
Narda Fattori
Affondo
Ho da stendere piani rovesciati
consulte deserte arie rapprese
memorie slabbrate
avemmo un canto un furore
roseto d’autunno
di spini che ebbero rose.
Nessuno riuscì a farci tacere
e da spalti o più comuni scranni
e incontri e quotidiane mene
gridammo gli inganni
le sorti tradite i morti amati
e tre volte riamati.
Mia Cassandra
con dita grondanti inascoltate sventure
portasti un serto d’infamia nel tempo
ma io ti canto – sorella di piétas inerme-
che le ombre degli antri
stilettano ventri
che la scritta sul muro è un gioco
che conduce al massacro
e la palla rotonda del mondo
rotola sempre più a fondo
nel male corrotto di psiche e di terra
sfrenata e profonda.