POESIA | Collana “Orme di poeti”
Mi hanno detto di Ofelia
di Cristina Bove
ISBN 978-88-6300-051-1
1° edizione settembre 2012
Euro 10,00 – Pagine 76
COPIE ESAURITE
Cristina Bove si racconta
Sono nata a Napoli il 16 settembre 1942, vivo a Roma dal ‘63. Ho cominciato da piccolissima a disegnare, a nutrire la passione per la lettura. In seguito mi sono dedicata alla scultura e alla scrittura. Negli ultimi tempi mi esprimo soprattutto in poesia. Mi sento testimone del mio tempo e della mia esistenza. Credo nella libertà e nella giustizia, penso che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza. Sono alla costante ricerca di un significato in questo infinito mistero in cui mi sento immersa, ma non mi faccio più domande inutili. Amo la vita, i miei cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta. Considero la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.
Ho pubblicato tre raccolte di poesie per la casa editrice Il Foglio Letterario:
- Fiori e fulmini (2007)
- Il respiro della luna (2008)
- Attraversamenti verticali (2009)
Sono presente in diverse antologie:
- Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo Campi) Auroralia (a cura di Gaja Cenciarelli)
- La ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo) Antologia del Giardino dei poeti (a cura mia e di altri poeti)
Di_vagando, diva_gando. Mi hanno detto di Ofelia
di Anna Maria Curci
Divagazioni, divertissement, diletto? Le definizioni colgono solo una parte dell’essenza, restringono il campo e, delimitandolo, lo tradiscono, restituendone, appunto, una versione tranquillizzante perché divulgabile. E’ bene, allora, diffidare di etichette sbrigative, sottrarsi alla tentazione di catalogare. Consiglio, questo, particolarmente calzante per Mi hanno detto di Ofelia di Cristina Bove. Silloge proteiforme, nel senso più ampio e nobile del termine, poiché dalla ricchezza e dalla mutabilità di forme e di declinazioni della poesia essa trae una linfa originalissima. La parola, quanto mai duttile qui, attraversa tutti gli stati della materia e altri ne crea, mescolando sapientemente e in guisa mai scontata gli elementi ‘naturali’.
Chi legge è invitato qui ad avventurarsi su Holzwege, sentieri interrotti nel bosco, a seguire vene sotterranee erroneamente date per esaurite, a percorrere traiettorie divergenti dal canone consolidato, anche da quello che l’epidermica impressione può far percepire come inusuale e innovativo e che troppo spesso, nella poesia contemporanea, non osa oltrepassare la striminzita e logora tessera del canovaccio pseudo-ermetico-essenziale.
Anche laddove è chiaro il riferimento alla mitologia (Divagazioni a Cnosso), all’arte al quadrato (Decodificando Godot, Mi hanno detto di Ofelia, La regina della notte), all’immaginario onirico condiviso (SubLIMINALE), agli universali empirici ed esistenziali (Bora, Diversamente stabile), l’esito, esattamente come il percorso, non è mai anticipabile.
Le dislocazioni (così recita il titolo di uno dei componimenti della silloge), le distonie, le dispute tra l’io lirico e le ‘persone’ nelle quali si imbatte (Una lei senza età a un lui che non sa, Una ciotola), tra l’io lirico e le sue anime (Lei, ma forse io), tra l’io lirico e le sue ‘occasioni’ (Che sia così?), non sono mai fini a se stesse, non si esauriscono nel guizzo di cifra meramente estetica, ancorché raffinatissima – e l’eleganza che unisce talento innato a sapiente e originale rielaborazione è tratto caratteristico di tutti i componimenti, non solo, come è naturale aspettarsi (l’attesa non resta, ovviamente, delusa) dei calligrammes (Tau, Perché la resa).
Si rifugge la salvezza a buon mercato, ma si diffida anche di quella che appare come freddamente ecclesiale (Inamovibile, Kyrie Eleison). La parola è al tempo stesso grimaldello per una ricerca ininterrotta, barlume di sollievo (Amore vol_mente) e sentenza di tormento (Sbalordire).
Nella sua inesauribile polisemia, la parola ammicca e svela, addita una possibile deviazione e lascia intendere che c’è altro. Così capita, come avviene in Contromisure, che il fuoco d’artificio dei cinque sensi evocati lusingati mescolati, fuoco che non disdegna l’illusionismo, si concluda con un appello alla scelta, alla coscienza, alla volontà: “e tu vuoi”.
“Ma ciò che resta fondano i poeti”, afferma Hölderlin a conclusione della sua celebre lirica Ricordo. Dinanzi al tempo, con le sue cesure (Pessime chiusure il tempo) e con i suoi inattesi spiragli (Aperture a latere), ciò che resta è la memoria, salda e inesorabile (Del non poter dimenticare, Per aspera), oppure esotica e fortemente evocativa (Sherifa, Daojiao), enigmatica e ‘misterica’ (Al_kimiya), matematico-musicale (Prossim’ali, Karma, Dado di fatto) o, più semplicemente, Ipofania.
Post-fazione di Francesco Marotta
La poetica di Cristina è un attraversamento lucidissimo della grande tradizione italiana novecentesca, ma a “testa sempre molto alta”, guardando “avanti” e non “intorno”. L’intorno suggestiona e, inconsciamente, finisce per legare il “passo” alla fascinazione dei modelli, dei monumenti, o dei ruderi, splendenti che popolano il paesaggio circostante; l’avanti è la fedeltà più intima e conseguente alla “propria” cadenza, al timbro della “propria” voce – il che non significa spogliarsi ad ogni costo delle atmosfere, dei profumi e dei suoni di cui, comunque, ci si impregna nel “passaggio”. Tutto sta nelle “strategie di controllo”, non solo formali, che si mettono in atto, per impedire che il “carico imbarcato” finisca per sostituirsi alla “sostanza” primaria di cui siamo unici e irripetibili portatori. Il testo deve restituire proprio quest’ultima, o non è: sarà anche uno splendido esercizio, ma la “calligrafia” non è, e non sarà mai, poesia. Non è e non sarà mai “stile”, ovverosia la cifra più specifica di una “voce”.
Nelle poesie di Cristina Bove di calligrafico non c’è assolutamente nulla, il che significa che l’attenzione critica alle procedure da cui la forma si origina è ben vigile, attiva. E non solo a livello cosciente, a mio modo di vedere – perché esiste anche una “forma occulta” (che ha i suoi tempi, i suoi modi e la sua sintassi) attraverso la quale l’inconscio, comunque, veicola la “materia poematica”, accentuando o declassando taluni vettori in virtù di meccanismi che solo l’ascolto più attento riesce a percepire e a restituire.
Ed è proprio una “lettura/ascolto” così configurata che permette di verificare l’intersecarsi dei due piani. Da una parte il controllo dei livelli di “vocazione emozionale”; la “restrizione” del campo di azione della tensione che, lasciata a se stessa, sfocerebbe, inevitabilmente, nella “commozione”, nella ricerca dell’effetto e della “complicità”; la chiusura di alcuni spazi verbali (con il significato polverizzato e disseminato ad arte nel gioco riflessivo dei significanti) – tutte strategie dove il “pensiero poetico” agisce in piena consapevolezza, con estrema decisione. Dall’altra, le cadute di ritmo che spezzano una cadenza e frustrano l’aspettativa facile del “canto”, aprendo, contemporaneamente, “spazi impensati” di riflessione che solo il lettore può colmare; la “natura ricorsiva” di alcune strutture testuali, con la conseguente insistenza su determinati termini che accentuano la reiterazione dell’immagine o dell’azione; la percezione, fuori controllo, dell’incompiuto, e l’incompiutezza “perturbante” che affiora a increspare l’ordine del discorso o quella che appariva, a tutta prima, come la più “naturale” delle aperture e conclusioni di senso – tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè poesia.