“Le ali della fenice” di Benedetto Orti Tullo

6,00

Collana | “Orme di inchiostro”
Pagine: 46
ISBN: 978 88 6300 032 0
Edizione: aprile 2011
Euro: 6,00
Formato: 15×21 cm

POESIA

Le ali della Fenice

di Benedetto Orti Tullo


Nota biografica

Benedetto Orti Tullo nasce a Milazzo (ME) nel 1980. Cresce a Spadafora (Me) in una casa popolare situata a pochissimi metri dal mare, con le Eolie all’orizzonte ed un panorama straordinario a far da cornice. Proprio osservando il “suo” mare scrive i primi versi poetici già in età adolescenziale. All’età di 18 anni muove i primi passi nel campo giornalistico collaborando con il “Corriere del Mezzogiorno” di Messina. Dopo diverse esperienze radiofoniche, intraprende l’esperienza nel settore televisivo. Attualmente vive e lavora a Barcellona Pozzo di Gotto (ME), dove svolge la professione di giornalista presso la locale redazione dell’emittente televisiva Antenna del Mediterraneo. È anche il Capo Ufficio Stampa del Basket Barcellona. “Le ali della Fenice” rappresenta la sua prima silloge.


Prefazione di Giulia Carmen Fasolo

Non sempre i componimenti che ogni giorno leggiamo e ascoltiamo hanno il “sapore della vita”. La Silloge Le ali della Fenice del poeta Benedetto Orti Tullo, invece, lo possiede e questo “rinforzo concettuale” si palesa nell’innesto figurativo dell’intero corpo poetico.

Rinascere è sinonimo di coraggio, di nuovo auspicio, di amore che riceviamo dalla vita e che a essa stessa riserviamo anche nei momenti di maggiore difficoltà. Questa è, in sintesi, la pertinacia poetica di questo libello edito dalle Edizioni Smasher. La struttura poetica di Orti Tullo si manifesta subito sfrondata, priva cioè di “fronzoli o orpelli letterari” che farebbero perdere al lettore ogni “succo concettuale”. La poetica dell’Autore non è sigla di convulsa interiorità, né costituisce sentenza del sapere. Il poeta parla di vita, del suggello extracorporeo che palpita nelle vene e reclama nella nostra quotidianità il suo interstizio vitale. È una vita che ruggisce dentro, nonostante le avversità. Ma chi vince e chi perde nel tentativo di osteggiare tutte quelle forme che offendono la vita e il suo ineluttabile avanzare? Il poeta stesso si interroga, non si illude mai che uno sguardo benevolo sempre e comunque possa salvarci dalla durezza della realtà. Egli è pragmaticamente consapevole che mascherare la realtà, confondendola da ciò che è con ciò che non è, non è congruo all’atteggiamento di chi intende viverla la vita.

Le forme che ci addolorano fanno parte del “gioco”. Per tale motivo, qui la poesia è autenticità, senza dover a tutti i costi ripulirla dall’emozione personale o dal vissuto affaticato di chi ha lottato. La vita da fioco bagliore diviene immane considerazione, così tanta è la forza che essa esercita su di noi. Orti Tullo sa bene cosa vuol dire tutto questo, ne conosce l’essenzialità sulla sua pelle. E non a caso l’incipit del corpo poetico è la poesia che racchiude la sua esperienza personale relativa all’intervento chirurgico al cuore che ha subito nel 1984. Lui ce l’ha fatta, perché il leone che ha dentro di sé non ha smesso di ruggire, né ha smesso di avere ugual forza.

Il linguaggio non è ostico, ma asciutto e sintetico. La metrica utilizzata in modo libero e senza vincoli stilistici crea sonorità, non la scalfisce. L’interiorità qui è trasformata in poesia, in ciò che io considero “architravi lirici”. Pur essendo una poesia robusta, quasi corazzata per difendere la sensibilità e la fragilità esistenziale che la tesse, il poeta sa perfettamente che è necessario filtrare da noi, passare attraverso interstizi umani e personali, per poter raccontare di vita. Quanto sia autobiografia non è dato sapere, né è determinante saperlo per apprezzarla.

A ogni modo, sappiamo già qualcosa: le figure familiari tengono compagnia al poeta, come se fossero ancora basilari le loro orme accanto all’uomo Benedetto, al fine di suggerirgli una giusta direzione. Una malinconica pioggia ne dichiara la loro assenza, ne stabilisce l’uggiosa tumulazione tra campi umidi di terra ed erba, ne rammenta la dolce ninna nanna di una voce confortevole e intima… Ma sono cose di un istante, brandelli e scampoli di un tempo che non c’è più, lasciando al vento il compito di coccolare quello che resta sussurrato.

La consapevolezza della nudità della vita di fronte a ciò che non può essere controllato, si ravvisa in quelli che io definisco, nel corpo poetico di Benedetto Orti Tullo, segni poetici. E ce ne sono diversi, quasi a ogni lirica. Suggestivi, ma soprattutto si fanno più fitti ed ermetici quando sembra sempre più labile il confine tra il narrato della realtà di chiunque e il narrato di sé e della propria vita.

Le sporadiche fughe in lontani sogni (La domenica / radioline e / “Tutto il calcio”), a sigillo di momenti che oggi non ci sono più (Piccolo mondo finito, / trapassato remoto), non devono però far confondere il lettore. Il poeta vive nel suo tempo, nella contemporaneità di una realtà che spesso viene indossata a fatica, ma non scappa da essa, l’affronta, l’afferra, ne riconosce le reazioni emotive, le trepidazioni, i turbamenti.

In una introspettiva salda, per quanto continuamente interrogativa dentro di sé (oltre l’ultimo battito non esiste più nulla […]. Mentre la brezza rasserenatrice prova a spirare sul volto di chi soffre con esiti alterni), il poeta affronta diversi temi (e l’amore?). Uno sguardo sensibile è dedicato al mondo dell’infanzia. Una fragilità che va protetta a tutti i costi, dal buio orco e da chi obbliga a ingiusti rantoli le mani delle proprie madri, i volti di donne sole e raccoglitrici degli umori e dei bisogni dei propri figli. I bambini sono “campi ricettivi” di tutto ciò che esiste al mondo, inclusi anche gli “stroke” negativi (il non riconoscimento dell’esistenza dell’altra persona in quanto tale) che arrivano dal mondo adulto. Ciò impone loro di difendersi con spostamenti o negazioni – nel modo migliore che sanno fare essendo piccini – le paure, i terrori, le notti insonni a lumino acceso. Nella poesia Fantasmi, ad esempio, colpisce la bravura del poeta di delineare così precisamente le sensazioni che un bambino vive di fronte alla gelida presenza di un’arma (metaforicamente parlando), che potrà anche non sparare, ma che segna e colpisce ugualmente come un proiettile nel sangue caldo della carne “raffreddata” dal terrore. La domanda “che c’entro io?” riecheggia tra i versi della poesia menzionata, ma potrebbe appartenere ad ogni losanga nuova e complessa dello sciame poetico di Benedetto Orti Tullo.

Un itinerario poetico dunque, quello racchiuso in questo libello, che non comporta una pigra e assonnata amministrazione dei versi. Sono stagioni scadute quelle di chi intende la poesia come chirurgia plastica dei sentimenti o come assoluto “diario adolescenziale”. Qui la poetica è finalmente ciò che dovrebbe essere per natura: alcova ottomana di vita, di messaggi, di espressioni di sé e della realtà vista dagli occhi dell’inchiostro poetico. Fedele al “codice culturale”, ma elaborazione di versi in continua mobilità nella stesura su carta dei concetti: è un grande viaggio di immaginazione la poesia di Benedetto Orti Tullo, ricca di abrogazioni di deleghe ad altri; una ricerca linguistica e figurativa che non termina, neppure con le poesie a sigillo del libello. L’esito, secondo i paradigmi della critica letteraria moderna, non può che essere positivo.

Il principio metamorfico nei testi (intendendo ciò che trasforma la poesia in vita) è riscontrabile in innumerevoli versi. Un procedere teso tra la continuità e l’intermittenza, attraverso temi ora di natura personologica (Infanzia di quartiere), ora di natura corale (Occhi di miele). Questa silloge non è vasta, ma ritengo che l’essenzialità del numero delle liriche che la compongono non sia un caso, né sia imputabile ad una rara “ispirazione poetica”. Mi sembra, invece, più appropriato parlare di significati plurimi in pochi spazi, quelli giusti, quelli che si ritengono sufficienti per veicolare il significato racchiuso nel titolo e nella rinascita sottesa. La tensione etica si palesa proprio nei versi di matrice personale, che rappresentano solstizi tra vene di ermetismo e forme orfiche (spazzare con le urla / non serve. / E quel muro di onde / ti fa ancora tremare). Ricchi di consonanze i versi: il punto di vista non è più tra il singolo e audace io e la plurima e assordante realtà, c’è più consapevolezza e giudizio (fortunatamente a discapito del pregiudizio) nel raccontare la vita. L’umile scriba fa rientrare il tutto nel flusso della scrittura, rinnovandone di volta in volta i significati, senza superbia o presunzione di verità.

Superare il “male di vivere” è possibile, senza rantoli dell’ultimo respiro. È altrettanto possibile “essere ciascuno e tutti insieme”, sulla medesima strada e per le medesime sponde. In alcune liriche, la parola sembra muoversi più rapidamente, forse in maniera più inquieta sulla pagina (Improvviso strepito / giunge / ansimando, / contorcendosi di tosse, / ingoiando il nulla), quasi convulsiva di significati, di precipitazione nel tentativo di arrivare fino alla fine del narrato (Gli occhi disperati / mirano il capolinea).

Un ultimo sguardo, però, merita il titolo: il messaggio sotteso che il poeta sembra voler veicolare è quello della “travolgente rinascita”, che forse assume un aspetto più forte e robusto rispetto alla nascita. In fondo, a pensarci bene, la nascita appartiene a tutti (come la morte). Appartiene a noi e alle piante, è insita in un principio (teologico o biologico, a seconda del credo) che sembra “respirare” a prescindere da noi e dalla nostra volontà. Invece, la rinascita – qui intesa senza legami assoluti con la pratica della clinica medica – sembra appartenere al coraggio dell’uomo, alla sua forza, alle sue unghie lasciate vittoriosamente sulla vita. Non è vocazione al sublime, è motore dinamico del vivere quotidiano. Che cos’è la Fenice se non rinascita? È chiamata “l’uccello del fuoco”, è un maestoso piumaggio color porpora e oro. La leggenda riferisce che ci sia in vita una sola Fenice viva alla volta. La sua esistenza è talmente rara, che nessuno ancora ha avuto la possibilità di confermare o smentire questa teoria. Le Fenici non necessitano di cibo per sopravvivere. Vivono per secoli, dopodiché realizzano un nido di cannella, mirra e incenso su una palma o una quercia. Lì, in quel riparo, prendono fuoco e si riducono in cenere, sfruttando un riflesso del sole sulle piume dorate per dare vita ad una prima scintilla, e attizzando le fiamme con il movimento delle ali. Dopo qualche giorno (alcuni riportano tre giorni, altri di nove), da quelle stesse ceneri nasce una nuova fenice. Il suo verso ha una musicalità soave e dolce, è un richiamo melodioso, che si prolunga e diventa meraviglioso con il passare degli anni man mano che la sua morte si avvicina. La Fenice rappresenta la grazia, la bellezza, la giustizia, la lealtà, infine l’emblema della vita eterna.

Concludo, il respiro dei pensieri, il riscatto di una vita diversa, la diversificazione dei temi trattati, rendono la poetica di Benedetto Orti Tullo matura, pronta per il salto nel mondo del mercato editoriale. Dedurre la bravura del poeta è facile: il taglio linguistico, la non approssimazione delle brevi descrittive, il non prosastico del corpo poetico… A prescindere da qualsiasi nota di commento, sono certa che la poetica di Benedetto Orti Tullo viaggerà da sola. Avrà una autonoma forza per farsi riconoscere, per farsi apprezzare. Il viso, il sorriso, l’adempienza professionale di Orti Tullo faranno certamente da cornice alla qualità della sua opera. Ma indubbiamente sarà il corpo poetico a parlarci, a raccontarci delle forme ossute della vita, nei meandri più difficoltosi come quando a tracciarne la via è l’assenza.

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